lunedì 6 marzo 2006

RIVELAZIONI


“Dios mio, recíbeme despacio sin pensarlo.” (Dio mio, accoglimi piano senza pensarci).
Venivamo da La Realidad, nel bel mezzo della foresta Lacandona, dove partecipavo al progetto scolastico denominato la “semitilla de Sol” e con me si erano aggregati tre giovani allievi maya di etnia lacandone, due maschi, una ragazzina e l'erculeo Tacho che per quel giorno aveva smesso i panni del militante zapatista e si adoperava come autista, guidando una grossa jeep americana. La nostra tappa finale era Comitan, un’antica città di stile spagnoleggiante che, a detta del mio amico, valeva la pena visitare. Fu un viaggio insolitamente riposante, con molte accensioni della fantasia, che la meta e la novità del paesaggio invitavano a fare. Le cime delle montagne apparivano come seni prorompenti di antiche matrone romane, linee dolci, tonde, che continuavano verso occidente. Erano gli Altos, l’ossatura montuosa orientale del Chiapas, che a perdita d'occhio si delineavano ripetitivi fino all'infinito; e su tutto una lotta tra due colori che si rincorrevano, si sovrastavano e dominavano: il verde chiaro delle coltivazioni che si perdeva tra le mille sfumature cupe della selva ancora lontana e l'azzurro terso e limpido del cielo. Montagne e colline, fazzoletti di tierras frìas ripida e scoscesa, suddivisa in tantissimi quadratini delimitati dalle stesse colture, seminati a mais e quant’altro poteva offrire questa terra fertile. Ripidi pendii che di botto finivano in conche verdi, piccole valli nascoste, pezzi di terreno che da lontano sembravano un'enorme collage, una grande trapunta poggiata con delicatezza sulla terra. La striscia d’asfalto della Panamericana ricordava una passatoia posata sull'erba verde dei campi. In ordine sparso si scorgevano casupole dignitose con i tetti di lamiera ondulata che luccicavano colpiti dal sole. Al centro della strada la linea gialla di mezzeria catturava lo sguardo e lo accompagnava, con la sua continuità, al centro della prospettiva, lontano verso il punto di fuga. Distanti banchi di nuvole, che arrivano dal Pacifico, di passaggio, coprivano il cratere del Tacanà a ovest e spingevano ad alzare gli occhi oltre i quattromila metri. Era proprio il vulcano il padrone incontrastato di quel magnifico scenario. Ai margini della strada un’enorme macchia di colore viola, una bouganville in pieno fiore, incorniciava un cartello stradale che portava una scritta a caratteri cubitali: B'ahlum,kan,a’ (Nuove stelle - nome Maya dato all’attuale Comitan). La periferia, abbastanza anonima, di Comitan, chiudeva e avvolgeva con le sue semplici costruzioni e gli ombrosi viali, il nucleo centrale della vecchia città. Lei, la vecchia signora di stampo castigliano, gelosa del suo fascino, sembrava non essere interessata a concedersi facilmente ai visitatori. I suoi conventi, i suoi monasteri, le sue chiese e le sue posade erano chiusi da spessi portoni di legno, rafforzati da antiche grate. Le strade del centro, erano in maggior parte lastricate di piccole pietre laviche grigie scure, porose, incastonate l'una nell'altra in modo da formare un preciso e gradevole disegno e le case, costruite tutte in muratura ad un piano o due, con il tetto in tegole di cotto avevano le facciate verniciate con tanti colori gettati a secchiate contro i muri, che componevano un fantasmagorico k'intum (arcobaleno) e poi meravigliosi cortili interni nascosti, invisibili, chiusi, discreti, protetti, esclusivi: i giardini delle posade, veri angoli di paradiso con aiuole centrali intagliate e attraversate da piccoli camminamenti in pietra grigia, incorniciati dai portici in legno, pieni di lussureggianti felci che dall'alto scendevano a formare treccine verdi e ficus che salivano affiancati a terra dai croton, piante grasse dalla caratteristica nuance nivea. A quell’ora antipomeridiana, la cittadina era permeata da un’atmosfera caotica che sommergeva ogni vicolo, ogni strada, fino alla piazza principale, intitolata al Dr. Belisario Domínguez, uomo politico benemerito, sostenitore della democrazia e, per questo, fatto assassinare all’inizio del secolo, da uno dei tanti improvvisati dittatori che infestarono questo Stato, dominata dall’imperiosa facciata color ocra della cattedrale di San Sebastián. La gente sembrava muoversi meccanicamente senza badare a niente o a nessuno e senza una ragione precisa. Dopo aver parcheggiato il fuoristrada in una traversa non distante dallo zocalo (piazza), ci dirigemmo, non prima di aver fatto colazione a base di Tortillas e noci di cocco, verso la piazza principale della città. Il caos più totale era l’incontrastato padrone di piazza Domínguez dove, essendo giorno festivo, si svolgeva il mercato. I bambini piangevano e le madri urlavano, i ragazzi scherzavano attorno alla grande vasca ottagonale, non disdegnando di buttarsi acqua addosso e tutta la confusione era ancora di più fomentata dai numerosi venditori ambulanti non autorizzati che andavano continuamente su e giù tra gli intasati corridoi delle bancarelle, carichi di gelati, giocattoli, caramelle, cibi misteriosi e l'immancabile Coca-Cola. Qui esplodevano i colori dei costumi dei Tojolabal, l’etnia Maya della città: gli uomini avevano quasi tutti il serape (poncho) e portavano grandi cappelli in paglia con fiori e frutti e lunghe coccarde di nastri variopinti, le donne indossavano huipiles (camicette) ricamate con grande fantasia e gonne nere di ruvido panno. Ma, in quella calda Domenica, era la musica a dominare su tutto, scavalcando le voci, i rumori più stridenti, le urla concitate dei mercanti. Era un canto corale di preghiera accompagnato da batteria, chitarra e tastiera, proveniente dalla chiesa. “Questa è l’anima di Comitan,” eslamò, estasiato, Tacho, mentre saliva i primi gradini consumati della catttedrale. La chiesa ci accolse con nuvole d’incenso e profumatissimi petali di rose sparsi sul pavimento di madera. La navata era di piccole dimensioni, inversamente proporzionale alla poderosa facciata esterna formata da tre corpi ascendenti su cui si sviluppavano colonne, archi, nicchie alloggianti sculture decapitate di santi, timpani e cornici che seguivano la curvatura delle finestre fino al campanile di pianta quadrata, con un curioso cupolino a punta rossa che sovrastava l’ampia copertura a volta della basilica. La corale, sistemata sotto al pulpito in legno scolpito con glifografie Maya, sorretto da poderose colonne di ispirazione corinzia decorate con foglie di palma, era composta da uomini e donne tutti vestiti con una semplice tunica bianca. Le loro facce, illuminate dalla luce che filtrava dalle belle vetrate colorate raffiguranti scene bucoliche, erano l’immagine di gioia profonda, di fierezza, ma anche di antico dolore. Nell’aria si mescolavano l’odore dell’incenso, quello delle mille candele accese davanti al volto indio di una Madonna, il profumo dolciastro delle donne indie con il sentore di bivacco degli uomini Tojolabales. Ad un tratto la musica e il canto si attenuarono, fino a cessare del tutto, lasciando spazio al libero sfogo dei fedeli. Dapprima un isolato gemito, poi autentiche grida di disperazione si propagarono per tutta la navata. Ognuno si lamentava per proprio conto, chi in tono alto, chi in tono modulato e profondo, chi contorcendosi esagitatamene, chi rimanendo immobile come una statua di sale e, comunque, tutti, senza mai rivolgere lo sguardo in nessuna direzione particolare, tant’è che in quella specie di funzione non compariva né un sacerdote, né tanto meno un simbolo religioso. In quel luogo sacro c’era posto per tutto, anche per l’alcol. Qualcuno sorseggiava il posh, il cacciaspiriti maligni trasmesso dai Maya, accovacciato sul nudo pavimento, in mezzo a grossi ceri, altri si limitavano a bere Coca-Cola. Quanto sarebbe disposta a pagare la Coca-Cola Company per immortalare in una pubblicità questa immagine mistica di consumismo e tradizione? Certamente molto, ma per fortuna nessuno poteva entrare in quel luogo sacro con una macchina fotografica. Chi ha avuto la buona idea di portare qui la prima bottiglia ora è ricco. Chissà se verrà mai citato in un libro di storia: colui che intaccò per primo questo Tempio. Bevevano e ruttavano, pregavano gli dei in una dolce cantilena che, dopo un doloroso lamento iniziale, si incanalava in un dedalo di endecasillabi incomprensibili: “catata latta catta tecche ticcu , chette, tecch, necche, catata latta catta tecche ...” “Impressionante e angosciante,” furono le prime parole che dissi a Tacho, uscendo dallo stupore. Anche Yolanda, la mia piccola allieva india tzeltal, si era fatta coinvolgere da quel rito tribale. Si mosse in senso obliquo, avanzando con forza e determinazione verso il disadorno altare. Sembrava che stesse trascinando un albero. Andava così adagio che le ci volle un’eternità per compiere pochi metri. Poi di colpo si fermò. Il suo volto, solcato da rivoli di sudore, era l’immagine della sofferenza più acuta. Cominciò a tremare, a piangere, a tirarsi i capelli e a lacerarsi la veste. La sua disperazione era così forte che costrinse alcuni di quegli incolleriti a sospendere le loro pratiche divinatorie e a guardarla con ammirazione e commozione. Cadde in ginocchio, lasciandosi scivolare sul pavimento. Le braccia allargate, il volto esangue, le pupille dilatate, il respiro affannoso, riproducevano l’immagine di un Golgota traslato nel mondo dei Maya. Braccia pietose alzarono quel corpo sofferente, sorreggendolo a fatica, ma lei subito si divincolò con vigore da quelle strette, portandosi davanti al lungo tavolo di legno che fungeva da altare. Ancora in trance, ma con il volto più rilassato, diede vita ad una invocazione che sembrava provenire dalle viscere della terra.“Hunabku, Itzamná, Chaac, Ixchel,u bah ti ak'ot ti hasaw,chan, u bah ti ch’am, u ch’am.” (Dio del sole, Dio della pioggia, dea della luna, sangue del mio sangue, ballate con me) Il suo sguardo adesso seguiva la traiettoria dei raggi del sole che si infiltravano dalle vetrate. “ [i]Hach uk’ahen”[/i] (Ho molta sete), disse ancora, con voce impastata e qualcuno si affrettò a passarle una fiaschetta d’acqua che lei bevve avidamente, senza mai distogliere lo sguardo dall’iridescenza solare. Poi, all’improvviso, esplose in un urlo di dolore: “Ma’ajtzan" ( Serpente Boa, a cui i Maya attribuivano qualità esoteriche malefiche). "Conosce la lingua Maya?", domandai a Tacho. Il mio amico mi guardò con un'espressione assente e con un rapido cenno della testa mi disse di no. Era anche lui agghiacciato da quello che stava succedendo. Nel frattempo intorno alla ragazza si era creata un’atmosfera di irrequietezza: tutti sembravano aspettare qualcosa. Nella navata si introdusse un forte vento caldo, che portò una scia nauseabonda che sapeva d’aceto rancido. Yolanda cadde di nuovo in ginocchio sul pavimento e cominciò a massaggiarsi la nuca, regolarmente, come se in quella zona ci fosse qualcosa che la tormentasse; poi singhiozzò a lungo fino a procurarsi dei conati di vomito. Così genuflessa a terra, il volto disperato, sembrava pagasse un osceno tributo d’amore e le sue labbra ripresero ancora a mormorare parole incomprensibili di una litania sovrannaturale. Come uscito dal nulla, dietro di lei comparve un uomo anziano, dall’aspetto ieratico, vestito con una semplice tunica bianca, bordata, da un lato, di rosso. Tutti gli astanti si inginocchiarono, abbassando la testa. La ragazza si accorse di quella nuova presenza e ora lo guardava, con le spesse labbra socchiuse, gli occhi liquefatti in un desiderio solitario eppure chiaro, talmente significativo da farla tremare, ma non dolorosamente come prima. Un Gesù bambino barocco guardava con gli occhioni tondi la scena, circondato da quelle fantasie iperboliche di ori e stucchi che caratterizzano le chiese messicane, anche quelle degli Stati profondi, incroci un po’ pagani tra gli enfatismi stilistici spagnoli e le coloratissime cosmogonie dei Maya. Da qualche parte suonò un campanello e il prete si inchinò davanti all’altare che, intanto, era stato imbandito da alcuni piccoli indios vestiti da chierichetti. Il canone della messa era cominciato. “La bontà e l’amore sono doni senza prezzo e vengono a noi, simili a fiori di campo nelle mani dei niños, cioè regalati da creature eternamente giovani, ignare di ogni malvagità. La ricompensa sarà la felicità di aver donato; felicità che non si può comprare perché il Signore non ha niente da vendere. Lui dona solo la gioia, sta a noi saperla afferrare!” disse il sacerdote, in spagnolo, chiudendo l’omelia.
“ Baax ka waik,Tatic? ” (Che cosa sta dicendo ,Padre?) s’intromise, urlando, l’india.
“Xiik tech utsil” (Che il bene sia con te ) , disse il religioso in tono quieto.
Yolanda scosse più volte la testa. “Nuc,nuc. Ma’in muk tik he’ Tatic!” (No,no. Non posso sopportarlo questo, Padre).
L’officiante alzò gli occhi al cielo. “Signore, sii buono con lei: Tu, meglio di chiunque, conosci l’animo umano. Quanti di noi vogliono credere e non ci riescono? La fede è un dono e per conservarlo noi dobbiamo solo continuare a pregarTi di tollerare coloro che non sanno esattamente se sia un dono o solo un prestito.” Fece un cenno al chierichetto e questi, di corsa, gli portò una stola argentata e un rosario con i grani in legno brunito e li baciò distrattamente, prima di indossare l’una, e tenere tra le mani l’altro e poi si portò davanti alla genuflessa. Lentamente il prete sollevò le braccia e posò i palmi sulla fronte della ragazza formando con il rosario una specie di catena. Lei avrebbe avuto voglia di gridare e non poteva muoversi. L’esile persona del sacerdote, pur senza toccarla, sembrava essersi trasformata in un macigno sull’orlo di un precipizio e, lei, restò lì congelata dalla paura di essere travolta. “Chultotic, es admirado por todos,venir!” (Dio dei cristiani, ammirato da tutti, vieni) supplicò, più volte, il prete. Poi, segnandosi la fronte con la mano destra, pregò con umiltà, recitando il Padre Nostro. Yolanda lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e sentì un senso di vertigine e la necessità di sedersi e raccogliere il capo fra le mani. Giù…giù, prosternata ai piedi dell’altare, con il torturante rimorso di aver arrecato offesa a un Essere Supremo, avvertiva che era giunto il momento di uscire da quella situazione. “Cuxtitali, (Gesù) aiutami! Io Ti amo. Ma non posso vederTi. Togli pure lo sguardo da me se Ti scandalizzo. Togli pure la mia tunica se Tu vuoi vedermi pura… Cuxtitali mi sento girare la testa.”
“ Ma’ajtzan (il male o il diavolo) è stato espulso. Gesù il Bene, ha vinto. Alleluia, Alleluia,” esclamò ad alta voce il sacerdote.
L’india fu ancora presa da un tremito e le sue mani cercarono istintivamente il rosario che ora era appoggiato sul pavimento e se lo cinse al collo.
Reza, niña, reza, ( prega, ragazza, prega) fai sì che il tuo spirito si annulli nel tuo cuore…” l’ invitò l’officiante e poi, volgendole la schiena e allontanandosi, recitò un improvvisato salmo: “In Paradiso ci vorrebbe un posticino vuoto e solitario dedicato alle animi tristi, timorose di scendere all’inferno.” Arrivò al centro dell’altare, un po’ esausto, alzò gli occhi al cielo e con fare solenne pronunciò l’ultima preghiera: “Jtotic (Padre Nostro) che sei nei cieli, io ti ringrazio.”
Non ne potevo più di quella situazione, dovevo fare qualcosa. A forza di bracciate e spintoni riuscii a fendere il cordone umano che cingeva la ragazza e mi avvicinai a lei, ponendole una mano sulla spalla all’uopo di tranquillizzarla. Yolanda non fu capace a ravvisarmi subito, ma credette piuttosto a un nuovo incubo terrorizzante o a un altro fenomeno prodigioso offerto da una mano punitiva. Poi urlò, urlò nelle pieghe della sua tunica strappata, urlò al sole impietoso che inondava la navata, tenendomi stretto a sé, coprendomi il viso di baci. “Dov’eri? mormorai, con strozzato disagio. “Mi senti, niña? Torna, torna da me!” L’india mi guardò con occhi addolciti. “Adelante, maestro, llevame da aquì e regresame a lugares donde soy felix”. (Andiamo maestro, toglimi da qui e portami nei luoghi dove sono felice). L’aiutai ad alzarsi, passandogli le mani fra i capelli bagnati di sudore e fusi le mie lacrime con le sue sparse sulla guancia. Finalmente, fuori, mi sentii spaventato e commosso perché, in quella splendente giornata di sole, avevo intravisto la bellezza dell’amore umano, non certo la bellezza degli antichi e disumani dei.

2 commenti:

  1. Anonimo6:22 PM

    Wawwwww,
    My dearest friend, thank you so much for sharing with me this experience, and for you; I can immagin un ricordo che ti rimmarra impresso per sempre nella tua vita come lo sara nella mia, da come lo hai spiegato cosi vividamente e` come se anche io ero presente con te there in quella piazza.

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  2. Anonimo6:22 PM

    Wawwwww,
    My dearest friend, thank you so much for sharing with me this experience, and for you; I can immagin un ricordo che ti rimmarra impresso per sempre nella tua vita come lo sara nella mia, da come lo hai spiegato cosi vividamente e` come se anche io ero presente con te there in quella piazza.

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