martedì 30 settembre 2008

Il contadino e la Morte.






Il contadino aveva ancora molto da camminare; la notte era discesa e il cielo era completamente annuvolato, ma di continuo i lampi illuminavano la campagna e i boschi delle colline circostanti. Poi si alzò il vento che buttava la polvere negli occhi del viandante, faceva frusciare le foglie secche e stormire gli alberi dei boschi. Gli uccelli volavano nella notte, stridendo di terrore, mentre i tuoni rotolavano in cielo.
Il contadino allungò il passo, quando i fulmini cominciarono a cadere, ma non si mise a correre, né andò a rifugiarsi sotto gli alberi, quando cominciò a piovere.
A una svolta incontrò la morte. Essa aveva indosso un mantello svolazzante e la falce brillava se i lampi rischiaravano a giorno l’orizzonte. Si accorse che lo guardava cercando d’intimorirlo, ma egli non le badò. Allora la morte si mise a correre su pei campi fino al limitare dei boschi e da quella distanza gli lanciò la falce cercando di colpirlo; e questo tentativo ripeté infinite volte, mentre il contadino manteneva il suo passo, sulla strada ormai ridotta a un letto di fango. La falce gli passava vicinissima senza colpirlo, e il contadino s’avvedeva ogni volta che sarebbe bastato allungare il passo per essere ucciso; pure resistette a lungo e non batteva ciglio quando la morte tornava a passargli davanti per riprendersi l’arma e ritornare al bosco correndo. Tremante di freddo e di fatica giunse al proprio casolare ed era per entrarvi quando la Morte lo avvicinò e gli disse: “Dunque non mi temevi?”
Il contadino le rispose: - Certo ti temevo: ma non sei tu a decidere.

Tratto da Miracoli quotidiani di Enrico Morovich, ed. Sellerio.

sabato 27 settembre 2008

Il profumo del Gargano



Il Gargano ha un suo profumo, ha tanti caratteristici e diversi suoi profumi che poi si sovrappongono, si mescola­no, si confondono e danno l’essenza del Gargano, che prende fin dal primo momento. E’ il pino marino, è l'Adriatico, sono le tante piante di mirto, di origano, di timo, sono le ginestre, la salvia, il rosmarino, il serpillo (la cui pastura rende ottimo il latte e pregiati molti suoi de­rivati lavorati sul posto), sono gli asfodeli, il lentisco, i pina­stri, la mentuzza, sono le molte e molte erbe della macchia che si spinge fino al mare.
Provate ad aprire tutti i finestrini dell’auto, quando arrivate sul promontorio garganico: sentirete immediatamente questo profumo di selva e di mare e comprenderete che la vostra vacanza è davvero iniziata, che siete entrati in un mondo diverso. Ma questo mondo così caro alle vacanze di tanti, italiani e stranieri, questo mondo così benedetto dalla natura, nonostante questa subisca ogni anno attentati incendiari, cela anche i segreti di uomini da noi remoti nel tempo, che per diversi motivi hanno compiuto lo stesso viaggio fin qui, e di esso hanno lasciato la propria impronta.
Ebbene, il segreto, o almeno una parte di esso, potrete fin da subito svelarlo quando raggiungerete Manfredonia,la porta del Gargano. Lì, nelle segrete sotterranee del Castello Angioino, c’è il Museo Archeologico dove vengono esposte le steli di pietra figurate che ignoti artisti della protostoria scolpirono e lasciarono a migliaia, nell’area delle paludi oggi bonificate di Siponto. Le steli daune, perché qui siamo nell’antica Daunia che adesso chiamano un po’ burocraticamente, Capitanata, vi s’imprimeranno nella memoria con il loro aspetto di lastre rettangolari intese a suggerire un corpo umano, tanto che fu ad esse sovrapposto un capo della stessa pietra molto schematico ma di rara efficacia. Sulle lastre sono incise, entro cornici geometriche che le inquadrano tutt’intorno, armi per gli uomini (spade, giustacuori, scudi) e ornamenti per le donne (collane, pettorali, grandi fibbie con nappe, cinture con nastri e pendagli).
Questi sono gli elementi distintivi. Ma la caratteristica principale delle steli daune è che tutta la parte anteriore reca pure incise, in aggiunta, le scene relative alla vita dell’aldilà: banchetti, offerte, colloqui, caccia e pesca, giochi in onore dei defunti. E in più tanti mostri infernali, che ai defunti fanno buona guardia, li interrogano e li spaventano. Questa fantasia lussureggiante, che d’improvviso fiorisce sulla sponda meridionale del promontorio garganico verso l’ottavo secolo a.C e altrettanto d’improvviso scomparve verso il quinto secolo a.C. a chi appartiene. Negli studi dedicati all’argomento, molti archeologi pensarono a migrazioni dall’opposta sponda adriatica, cioè dalla via d’Oriente, dunque, quella via che costituisce,fino ai nostri giorni il filo conduttore degli spostamenti di massa verso i lidi italici. Alcuni studiosi sono tentati di indicare nelle scene rappresentate nelle steli, fascinose coincidenze con l’Iliade omerica: il riscatto di un guerriero ucciso, alcuni uomini dentro al corpo di un cavallo e, per questo, ne traggono una specie di ipotesi suggestiva di un’Iliade “figurata”, di una trasposizione popolare dei motivi eternati dalla poesia di Omero.
Certo le steli daune non sono che una manifestazione più appariscente di una presenza umana antichissima sul promontorio garganico e nel retroterra adiacente, che si conta in centinaia e migliaia di anni e che fu indubbiamente dovuta alle eccezionali condizioni climatiche di questa terra: basti ricordare, ad esempio, l’osso graffito con una scena di caccia scoperto nella Grotta Paglicci (non molto distante dalla porta del Gargano) e risalente all’età paleolitica.
Nella vicina Salpi (l’antica Salapia, che secondo la leggenda sarebbe stata fondata dall’eroe greco Diomede) sono state individuate le tracce di un’ampia cinta muraria e lo stesso è accaduto in altri centri, come Arpi e Lucera. Sono cinte, si noti, più grandi di quelle moderne: solo per citare un esempio, quella di Arpi si estende per tredici chilometri, mentre il perimetro dell’attuale Foggia ne misura suppergiù appena sette. Evidentemente, queste cinte riflettono una diversa concezione della città, per cui le mura circondavano non solo le abitazioni, ma anche i terreni a coltura agricola e a pascolo nel circondario.
Proprio Foggia, con il suo museo, offre una grande testimonianza della storia archeologica della provincia Dauna e proprio Lucera, con l’anfiteatro, documenta la trasformazione nell’età romana. Ma c’è ancora un itinerario da raccomandare per chi intenda soggiornare da queste parti, quello che per una strada a tornanti, tra spuntoni di rocce brulle e grige, porta a Monte Sant’Angelo, dove si eleva da settimo secolo della nostra era un santuario celebre e venerato, quello di San Michele Arcangelo.
Malgrado le trasformazioni e le distruzioni, il santuario conserva ancora la sua struttura caratteristica: una lunga galleria, sotto la chiesa, conduce a una grotta naturale in cui, secondo la tradizione, San Michele sarebbe apparso e avrebbe lasciato l’impronta dei suoi piedi. Il fenomeno della “stilla”, cioè della sorgente miracolosa che lascia trasudare l’acqua dalle areti della grotta, si collega ad un culto assai più antico, del quale ci danno notizia gli scrittori greci. Soprattutto sono caratteristiche del santuario le iscrizioni sulle pareti, tracciate con mano inesperta e non senza errori dai pellegrini di tutto il mondo, crociati compresi. L’università di Bari, qualche anno fa, ha fatto una mappa completa e dettagliata, dalla quale risultano centinaia di nomi accompagnati da qualifiche come “peccatore”, umile”, “indegno” e da formule dedicatorie come “Viva Dio”. Un fatto che colpisce subito l’ettenzione: molti di questi nomi sono longobardi e dunque la predilezione di quella gente per il santuario. Vogliamo considerarli i predecessori dei turisti, oggi assai numerosi e forse inconsci di un tale antefatto, che visitano il Gargano? Non si tratta sempre d’iscrizioni. A volte anche i Signori di un tempo mettevano le loro diciture e le casuali quando avevano parte nei rifacimenti della Basilica. Dice una scritta tutta in maiuscolo: “Il duca Romualdo, spingendolo la devozione, per ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo volle che si facesse (la costruzione) e ne fornì i mezzi”. Si tratta di Romualdo I°, duca di Benevento dal 663 al 687; e dopo di lui compaiono anche Romualdo II° e la moglie Gunperga.
Così, attraverso i millenni, il Gargano perpetua la sua funzione di grande area di civiltà, di luogo di convergenza e di raccordo per gli uomini e le credenze delle origini più varie e remore. Vero sperone d’Italia, si protende nell’Adriatico raccogliendone gli apporti, sedimentandoli, offrendoli all’incontro e al confronto con quelli che giungono dall’entroterra. Un po’ come i magici vasi esposti nell’antica farmacia di Mattinata, l’atrio del Gargano, che imprigionano i più preziosi profumi e, poi, aprendosi, li offrono ai visitatori.

Immagine: nave su stele.

mercoledì 24 settembre 2008

mercoledì 17 settembre 2008

Il gabbiano





Spalanco la finestra e, colpito dalla luce, non vedo
A poco a poco le immagini si fanno più chiare.

Il Sole arde in cielo.
All'orizzonte tremulo, un solo gabbiano.
Le ali spiegate sul mare.

LIBERO !
Almeno lui !

A noi uomini solo vincoli, pesi delle abitudini
della Società, della famiglia, della salute, dell'età.............

Che fare......fuggo dalla finestra e con invidia
URLO: vorrei essere gabbiano.

Danilo B.

martedì 16 settembre 2008

Razzismo


Dietro le parole
si cela sempre
il volto dell'uomo
e il suo bisogno
di crudeltà.

lunedì 15 settembre 2008

Oggi è cominciata la Scuola.




Terruncella, la guagliuncella, per esami
Ma si richiami all’ordine
Questa ministra riscaldata
Che dalla Scuola è poco amata.

I grembiulini e le leggine
Sono solo manfrine
Per nascondere l’economia
Che traballa e diventa una falla
Sulla nave di Tremonti
Come dicono le fonti.

E così si riscopre il maestro solitario
Per far felice l’erario
E mandare la multidisciplinarietà
Sulle passerelle del varietà.

Quella parla di formazione
Ma è una derisione
Perché è solo un parcheggio
Alla meno peggio.

Il sud va in malora
Nonostante la scuola
Che qui è una aiuola
Di soggiorno prolungato
Perché oltre al raccomandato
Di lavor non c’è mandato
E l’emigrazione è alle porte
Se non si vuole la morte.

E così tra frizzi lazzi
Stiamo diventando tutti pazzi
Sentendo questa concubina
Che non stacca mai la spina
E con la sua presunzione
Preannuncia la rivoluzione
Ma senza pensiero programmatico
E senza soldi dai manigoldi
È tutto “aleatico”.


Frator

giovedì 11 settembre 2008

Le api hanno smarrito la via di casa


Cresce la preoccupazione degli apicoltori per l’estendersi di un fenomeno al quale ancora non si riesce a trovare soluzione. Le api presentano disturbi di comportamento, che si traducono in disorientamento con conseguente impossibilità di far ritorno all’alveare. Quindi, aumenta la moria di api con gravi danni alla produzione, specie nel Nord (pianura Padana) e in alcune regioni dell’Italia centrale. La causa di questo fenomeno sarebbe il trattamento insetticida delle sementi (insetticidi applicati ai semi) e anche l’irrorazione su vigneti e altre colture (specialmente mais e girasole). In particolare l’insetticida sotto accusa è il genere neonicotinoide, in quanto mostra un’elevata efficacia nel controllare piaghe che pungono-succhiano. Gli apicoltori non hanno dubbi sul rapporto causa/effetto.
E’ difficile stabilire l’entità del danno ma nella Regione Lazio, che rappresenta il 17% della produzione nazionale, le associazioni di apicoltori calcolano una perdita del 40-50% del patrimonio apistico. Simile, se non superiore, è stato lo spopolamento e moria di api nelle pianure del Nord, dove si è verificata una notevole dispersione di sostanze chimiche durante le operazioni di semina del mais.
La B & C, istituto di ricerca di mercato operante da più di 30 anni sul mercato nazionale e internazionale, analizza il tema in stretto contatto con gli operatori del settore, le associazioni di apicoltori e le istituzioni nazionali.
L’importanza della produzione di miele è data non solo per la sua dimensione economica, che in Italia rappresenta un volume d’affari vicino ai € 30 milioni (più di due volte superiori se si considera l’indotto), ma anche per il suo valore dal punto di vista ambientale. Infatti, il ruolo delle api nell’impollinazione è determinante nella produttività di cereali, frutta, ortaggi, ecc. In Usa si considera una incidenza di 1/3 nella produzione agricola totale.
Inoltre, ha una ricaduta positiva sul mantenimento di un tessuto sociale nelle zone marginali ed economicamente svantaggiate del territorio, costituendo uno strumento naturale di monitoraggio ambientale.
Tina Badaracco, titolare della B & C, a partire da colloqui mantenuti con operatori del settore, mette in evidenza la necessità d’intervenire per migliorare la concia delle sementi, migliorare le operazioni di semina e realizzare un monitoraggio permanente della gestione ambientale per la produzione di miele.
L’Italia non può trascurare un settore che costituisce un fattore di sviluppo equilibrato del territorio rurale, dove si sono realizzati importanti sforzi di valorizzazione, a tutela della qualità del miele.
Malgrado un potenziale produttivo di 17.000 tonnellate, la produzione di miele in Italia stenta a superare 10-12.000 tonnellate/anno, contro un consumo di circa 20.000 tonnellate/anno.
Il vantaggio dell’Italia è quello di poter offrire tipologie di miele differenziate con fattori di specificità organolettica da commercializzare in nicchie di mercato specializzate e più remunerative destinate agli estimatori, in un mercato mondiale con trend crescente, segnala Marcelo Evangelista, responsabile della Divisione Internazionale della B & C. Un mercato mondiale che produce 1,4 milioni di tonnellate/anno, con Cina (270.000 tn), USA (94.000 tn.) e Argentina (89.000 tn) come i principali produttori.
Le autorità nazionali e regionali, cosi come le associazioni di produttori, sono chiamate a rispondere alla sfida, a partire del consolidamento dei vantaggi competitivi che offre il settore abbinando miele e territorio a partire di un’efficiente sistema di gestione ambientale, sviluppo di filiera e valorizzazione del miele. La Regione Lazio si pone in linea con questo obiettivo a partire dei recenti annunci in appoggio del settore.


Fonte B&C

L'alfabeto

“…Perché esso ( l’alfabeto) ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà. Essi cercheranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più all’interno di se stessi, ma da di fuori, attraverso sogni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno di essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
Platone, Fedro, 275.

Al di là dei diversi pareri che questa discussione di Platone può suscitare, le battute finali di questo celebre dialogo platonico pongono in essere un problema che assilla l’umanità da millenni e a cui non si è ancora saputo dare una risposta definitiva. Platone ricorda in questo passo il mito di Thot, il grande dio inventore dei nu­meri del calcolo, della geometria, del­l'astronomia e del gioco dei dadi e (ul­timo nell'elenco socratico) delle lettere dell'alfabeto. Questa discussione platoniana è la risposta che il faraone Thamos dà al dio quando questi gli presenta la sua invenzione. Il proble­ma prontamente individuato da Platone attraverso le parole di Thamos non fa tanto riferimento alla nuova invenzione, la scrittura appunto, ma alla mi­naccia che la sua comparsa avrebbe comportato: non la conservazione ma la cancellazione della memoria.
Memorizzare dati costituiva questio­ne fondamentale già nell'antichità quando le culture erano ancora orali e in parte la poesia, o meglio la tecnica epica, ne costituì a suo modo una par­ziale soluzione. Ciò che a tutta prima si può osservare è che ogni epoca ha trovato una risposta al problema della memorizzazione dei dati modificando il supporto su cui questi venivano con­servati in relazione alla tecnologia pre­sente in quel momento. Il primo sup­porto di memorizzazione dati fu con tutta evidenza l'uomo stesso attraverso due sistemi: vocale e mnemonico il primo, complementare e di supporto al secondo. Le prime soluzioni al proble­ma della memorizzazione furono pro­babilmente sia grafiche (come dovreb­be chiarire intuitivamente la storia del­la scrittura egizia) sia, per il supporto orale, poetiche, ma furono anche suo­ni, rumori, incisioni, disegni ecc. Furo­no insomma a loro modo soluzioni multimediali. Nell’epoca in cui la scrittura divenne il maggior mezzo di informazione, le tecniche relative per la sua memorizzazione passarono attraverso la pietra, la terracotta, i papiri, le per­gamene gli incunaboli, via via fino ad arrivare al libro. Accanto a queste vi erano ci si aggiunsero altre tecniche, sempre legate al medium comunicati­io: la pittura la fotografia, il film, le re­gistrazioni sonore in analogico, le regi­strazioni digitali su supporti differen­ziati ecc.: tutte tecniche che per noi poi sono diventate e sono state chiamate arti. Oggi esse vengono riunite sotto il nome di multimedia, per certi aspetti ipotizzabile come una forma economi­ca della memorizzazione. Dunque l'antenato del moderno hard disk, per non parlare dei dischi ottici e dei DVD è direttamente il li­bro e, in origine, la scrittura stessa. Tut­tavia anche questi strumenti, dischi ri­scrivibili e o leggibili, hanno, mutatis mutandis, gli stessi problemi di manu­tenzione e conservazione dei supporti cartacei. Ma quale è la relazione che ci permette di vedere il libro come ante­nato dei supporti ottici o magnetici? Possiamo pensare alla scrittura come a un modello di codice di memorizza­zione. I libri diventano allora le memo­rie di massa più adatte alla conserva­zione del codice scrittura. Se cambia il codice, cambia anche il tipo di sup­porto ad essi) legato. Il codice binario o esadecimale, per esempio, non si presta assolutamente alla stampa car­tacea né alla visualizzazione, ovvero alla lettura umana (escludendo i moderni "scribi-programmatori" che li possono interpretare). Il codice bina­rio si presta perfettamente alla lettura meccanica per tutta una serie di caratteri­stiche che qui sarebbe lungo commentare. Esso rappresenta una sorta di alfabetizzazione secondaria (o anche di interfaccia) rispetto al codice lingui­stico stesso, il quale a sua volta è rap­presentazione-interfaccia di un codice orale. Il codice binario è, in tutta evi­denza, la nuova scrittura elettronica e gli ipertesto sono appunto sequenze elet­troniche di codice con particolari pro­prietà, la prima delle quali è la non se­quenzialità ma la capacità con cui attraverso i programmi riusciamo ad estrarne. Di fatto credo che se si scrivesse una storia della scrittura come codice po­tremmo avere una mappatura dell’e­voluzione del pensiero e dell'umanità e non sarebbe certo tempo perso.

mercoledì 10 settembre 2008

Le vostre braccia






Cuccistella
Le vostre braccia

Si avvicinano dorsi e code d’argento
Nel mare inclinato dei venti
Le vostre braccia distese
Pronte ad accogliere sofferti arrivi
Fiutano odori e sapori di melograno
Incontrollate delizie
Affetti che cresceranno nel tempo
Da il vento dell’estate
Al gelo dell’inverno
Alla nebbia che placa tumulti
Nell’ovale del vostro amore.

lunedì 8 settembre 2008

Il volo dell'aquila

E’ un altro meraviglioso, sconosciuto angolino d’Italia; è un altro francobollo di tricolore fuori dai soliti itinerari. Non è sulla bocca di tutti, non ci sono fenomeni di massa alla ricerca di sfrenato divertimento, non ci sono “VIP” che si calano sugli occhi lenti annerite per nascondere la noia e la presunzione di essere al di la di tutto e tutti. Chi viene qui lo fa per calarsi dentro la natura, tra sassi e dirupi da paura, per godersi le strade tortuose ma senza traffico, per assaporare gli odori di una volta, il grido silente di una natura incontaminata e una giornata, come quella di ieri, scandita dalla luce del sole, dai ritmi della civiltà contadina e di un paese a picco sul mondo. Qui, a venti minuti d’auto dal casello autostradale di Scafa che annuncia l’Abruzzo ai piedi della Maiella, in questo paesino di pietra che già dal nome richiama l’asprezza della salita, Roccamorice, così lontano dal suo comune capoluogo di Regione, cioè Pescara, chi volete che ci venga? D’altronde, non è certo irraggiungibile, visto che Roma, tanto per dire il centro del mondo e l’Adriatico del Nord e del Sud sono ben collegati e a disposizione di chiunque. Ma noi, i quattro elefantini epicurei, a Roccamorice come ci siamo arrivati? Venivamo da Caramanico Terme dove ci siamo concessi un fine settimana alla James Bond, cioè indagando, per futuri soggiorni, sulla qualità delle acque e sui servizi ricettivi anche alla luce dei recenti scontenti in altre località termali. Roccamorice spuntò per primo dalle labbra di una efficiente addetta alla reception del Grad Hotel del Terme appena noi le chiedemmo dove si poteva andare a mettere i piedi sotto a una buona tavola. Meglio di un Tom-Tom la signora Maria. Tracciò all’istante uno schizzo di mappa, segnalazioni di svolta appropriate e il nome del locale scritto in grassetto: “il Carro”. Ma noi…non l’abbiamo trovato e siamo arrivati dritti, dritti al centro del paese. “Dovete tornare indietro verso la statale”, ci dissero alcuni avventori di un bar che cercavano frescura nei boccali di birra. A queste parole scolorimmo. Tornare indietro? Ripiombare in quella cappa di caldo che ci eravamo lasciati alle spalle? E chi se la sentiva? “C’è qualche locale qui dove se possa magnà”, domandò il Dany, al colmo della disperazione, nel suo inconfondibile slang alto-atesino. “E cumme a no! C’è solo l’imbarazzo della scelta”. Ci risposero in un bel orchestrato coro. In effetti i locali erano due che facevano da laica corolla alla chiesa madre del paese. Anghingò tre civette sul comò, cantammo e la scelta cadde su quello che già si scorgeva all’orizzonte prossimo: l'Osteria del Belvedere e mai nomen-omen fu più azzeccato di questo. Entrammo quasi di rincorsa e subito fummo catapultati in una casa museo dove l’arte di ispirazione precolombiana esplodeva e prendeva forma dalla pietra della Majella. Se stupore e commozione ci chiusero il cuore, la gola, quasi a digiuno, richiedeva la sua parte. Oltre alle divinità sconosciute e ai contorti volti disumani scavati nei blocchi di pietra si scorgeva un’altra saletta oblunga che sembrava sporgersi in un orrido infinito. Ci lasciammo alle spalle lo stupore e ci avviammo verso la sponda dei sapori che già si impossessavano delle nostre narici. Ci accolse, con un sorriso d’intelligenza, un cameriere che già di primo acchito ci pareva dedito a tutt’altra professione. Un volto solare incorniciato da un sottile rigo di peli biondicci, un codino di capelli legati con cura e una predisposizione alla solerzia ragguardevole. Capimmo subito che avevamo di fronte l’artista che aveva dato origine a quell’ambaradan di pregevoli sculture. Furono sufficienti poche parole e lui ci catapultò nel suo mondo e… poi fu gloria, in tutti i sensi. Un menù senza pretese, casereccio, ma invitante, accattivante, piacevolissimamente desueto: provolone al miele d’api locali, che prendono nido nelle tante tipologie arboree di cui la zona è ripiena, recinto in una corona di noci; i chitarroni fatti veramente in casa al sugo, ma non un sugo sbiadito, commerciale, ma denso, commovente nella sua succulenta schiettezza d’altri tempi. Al secondo il maiale in tavola sotto forma di lombatine innaffiate con aceto balsamico, proveniente da uva locale e pinoli di bosco. Un po’ di ricerca sostenuta da una materia prima ragguardevole.
Del dolce ne abbiamo fatto a meno vista l’abbondanza dei piatti e del coinvolgimento totale ad un evento che la Tina, moglie dell’altoatesino, ci stava raccontando. Uscita fuori dal locale per distrarsi dall’abbuffata ha visto un oggetto scuro di notevoli dimensioni librare libero in alto. Era un’aquila reale in cerca di preda che tra anfratti e picchi danzava con il cielo azzurro. La macchina fotografica poggiata in bella mostra sul tavolo…ma noi avevamo il supporto multimediale della Tina che quando apre l’obbiettivo del racconto ne escono fotografie suggestive.
Un consiglio: non perdete questo piacere d’altri tempi e un locale singolare colmo d’emozioni di pietra. Il tutto e senza biglietto d’ingresso non vi costerà più di 25 Euro.















Ascoltando il cuore

E’ quanto m’accadeva in un giorno di vacanza che non sapeva decidersi se essere sereno o imbronciato, se piovere o no, se riproporre l’afa della pianura o un anticipo delle prime brezze settembrine.
Qui, a quota mille metri, in un posto defilato dell’appennino a cavallo tra Emilia e Liguria, senza turisti e senza caos, il cielo si abbassa e si addensa, accerchia nella sua luce decadente alberi, animali, case di pietra e lontani profili di urbanizzazione.
Tutto è pervaso da un senso di sospensione, tace e aspetta. A tratti un po’ di sole color porpora tenta d’incunearsi nella ragnatela di nubi che mi sovrastano ma lo fa senza convinzione, tanto è debole, calmo, lento.
Una sensazione di pena diffusa si posa su tutto. E’ una pena anche lei tranquilla, rassegnata, un dolore che accetta la vita com’è in questo istante di grigiore ravvivato solo da sparuti cespugli verdi disseminati nelle prime ascese della roccia. Pare d’essere immersi in un alone di umidità che sa di pianto antico, senza lacrime.
Tutto quanto d’intorno somiglia a certi cuori che hanno dentro l’aridità del deserto e che vivono senza vento e senza intravedere oasi di salvezza. Pare che le cose abbiano trovato rifugio ovunque e che da lontano guardino questo posto.
Ma cosa? Ma dove? E perché? Forse l’estate ha paura che l’autunno bussi alla sua porta e che accoglierla sarebbe affrontare l’inevitabile ruota del tempo, i passaggi alternati di dolore e felicità. In questo momento non esistono i picchi o gli abissi dell’umano, ma solo una quiete orizzontale, dilatata all’estremo, un senso di pianura percepito tra le montagne: riposante percezione della piattezza fra la verticalità dei boschi. In verità non si vede nessuna spianata, è solo un’intuizione sensoriale, forse è soltanto il cuore che si allarga e riposa nell’ora che segue il pranzo.
Momento fatato e indefinito questo, lontano da tutto e da tutti, senza telefono, televisore e musica, tranne quella che viene spinta dal vento tra i rami, un cane senza guinzaglio che mi sceglie come provvisorio amico e si acciambella ai miei piedi, un cinguettio che non trova risposta, un libro di Zanzotto dal titolo ecumenico “Aure e disincanti”, e un’idea vaga, vaghissima, di chissà quale vita.

venerdì 5 settembre 2008

La piscina delle rondini

“Per quest’anno non cambiare stessa spiaggia stesso mare” si cantava negli anni della mia adolescenza e io, come il più acceso dei fideisti, trascorro le mie vacanze, non sul bagnasciuga ma ai bordi di una piscina termale che si affaccia sulle affollate spiagge della costa tirrenica calabrese, tra il massiccio del Pollino e i primi verdeggianti contrafforti della Sila. E’ da più di un decennio che io e mia moglie veniamo qui a passare le acque. Siamo arrivati in questo luogo, un po’ fuori dai percorsi turistici tradizionali, per non dire dal mondo, inseguendo le tracce di nostro figlio che si era invaghito di una bellezza locale conosciuta all’università e anche dopo che la sua passione ebbe fine noi continuammo a venirci con regolare puntualità. Se la ragione iniziale della nostra presenza ha una sua logica, seppur perversa, il dopo, cioè la perseveranza, rappresenta un mistero che fino a oggi sembrava insolvibile. Sulle prime ero convinto che a farmi tornare fosse l’incanto fiabesco del luogo: il poggio che guarda il mare senza subirne l’effetto così com’è incastonato tra il verde delle foreste e un massiccio roccioso chiamato il dito del diavolo che si erge minaccioso sulla struttura termale; poi le amicizie che negli anni si sono ampliate e fortificate assumendo contorni di familiarità assolutamente impensabili per chi come me cercava di fare della riservatezza uno stile di vita. La cordialità tutta meridionale del personale delle Terme, le varie sfaccettature caratteriali degli ospiti mi hanno reso meno impermeabile alla vita di relazione. Così sono nate storie, passioni condivise, memorie da tenere in serbo per riscaldarsi durante l’inverno. Avvio il rotore e la pellicola in programmazione per questa stagione si svolge. Ecco spuntare l’aitante e corteggiatissimo cameriere che non si sposa per rimanere accanto alla madre da tempo ammalata, o un portiere di notte che ha scelto questo incarico delle ore piccole per sorvegliare un fratello che si è perso nei fumi dell’alcool e poi, per passare agli ospiti, il generale in pensione, che io chiamo degli Elfi per la sua altezza che eguaglia quella dell’ultimo Re dei Savoia, che ammonisce con toni da sbarco in Normandia tutti coloro che hanno l’ardire di fumare in sua presenza e che nonostante l’età e i tre by-pass coronarici continua a guardare con occhio rapace tutte le donne che gli capitano attorno comprese le fumatrici. “Tutto merito degli anticoagulanti che assumo ogni giorno se sono ancora un galletto”, mi confida, forse per giustificare la sua debordante voracità e, ancora, un allevatore umbro di cavalli che è diventato il terrore di tutti i giocatori di burraco per la sua invadenza nel gioco. “Nun se fa cusì” comincia a dire per poi, se inascoltato, avventarsi sulle carte in mano del malcapitato giocatore, aggiustandole a suo piacimento. Qualcuno tace pur regalandosi un sicuro mal di pancia, altri si alzano dal tavolo adducendo scuse e impegni incontrovertibili e lui, gongolante, senza chiedere il gradimento della sua presenza, si siede al loro posto continuando a smoccolare improperi e accuse a chicchessia. Così molti hanno incominciato a studiare i suoi orari e le sue uscite con la numerosa famiglia che si è portato dietro e giocano in posti insoliti e in orari da lupi mannari per non essere infastiditi quando l’umbro torna. Il Burraco è una cosa seria in vacanza, un tonico corroborante, un andito dei passi perduti e non giocarlo sarebbe come ridursi lo stipendio. Ma non sono queste storie di minimalia, seppur forti e avvolgenti e l’incontaminata natura che tutto avvolge a farmi ritornare qui, come pensavo. Altri sono i motivi. Mi è bastato, appena arrivato, guardare il cielo dalla vasca della piscina per ricordare le rondini e avere nostalgia di rivederle. Uno spettacolo unico e imperdibile. Arrivano verso le sei del pomeriggio quando la piscina si svuota di bagnanti e iniziano la loro danza a pelo dell’acqua stagnante e putrida di zolfo e alghe. Io sono lì che aspetto e in questo momento tutto il resto non conta più. Non contano gli sguardi curiosi e ilari degli ospiti, gli allarmi interessati degli addetti alla piscina che vorrebbero incominciare a sistemare le sdraie e gli ombrelloni, gli occhi atterriti di mia moglie che mi puntano come se andassi a combattere chissà quale battaglia. “N’do vai ninnì?”, mi dice un amico romano di lunga data. Lui sa bene dove vado, lo sa da sempre ma ci gode a stuzzicarmi. Scendo la scaletta della piscina e mi posiziono contro la parete nord, una riedizione termale della curva Filadelfia e aspetto. Non ci sono bandiere che sventolano, grida di incitamento, solo silenzio. Il cielo è azzurro, pulito, senza graffi. Poi, all’improvviso, un leggero refolo di vento sembra agitare il magma liquido. Eccole, arrivano, non si capisce da dove ma sono qui, sopra di me. Stormi d’uccelli neri con la livrea bianca. Squadriglie schierate perfettamente a rombo. Fanno un paio di voli di ricognizione e poi il capo in testa lancia l’attacco. Come kamikaze scatenati si catapultano sull’acqua, Le ali sono ferme, rigide, quando scendono, per poi diventare elastiche quando riprendono quota. Qualcuna si bagna il sottopancia, altre si cibano di microrganismi, altre ancora lanciano qualche bombetta escrementale e poi spariscono verso il bosco lasciando il posto ad altre pattuglie. Vanno avanti per quasi un’ora. Una danza, una perfezione stilistica senza pari, un evento che sa di elegia e che purifica l’anima. “Professò, la piscina si chiude” mi grida il bagnino. Lo spettacolo è finito ma domani si replica e anche quando sarò lontano da qui mi porterò le rondini nel cuore nell’attesa di poterle rivedere il prossimo anno ancora e ancora.


Come criticare, con poca indulgenza, me stesso.




Scrivere per me è un'arte marziale in cui l'avversario sono io stes­so. Sono io che scrivo e sono io che impedisco a me stesso di scrivere. Sono io che mi pongo un traguardo e, guarda un po’ sono io che mi ostacolo per non arrivarci quasi mai. Sono io che programmo la vittoria e sono sempre io che la saboto . Ma, come nelle arti marziali il princi­pio consiste nel far sì che il contendente si sconfigga da solo con la sua stessa forza, così, apprestandomi a scrivere devo aver presente attraverso quali esercizi l'impeto con il quale lo sfidante mi attacca può essere utiliz­zato a mio vantaggio e ritorto con­tro di lui. Come diceva Pogo (il fumetto americano di Walt Kelly) : "Ho visto il nemicoe lui è noi": ma è quella parte di noi, di me, che è ammalata di presunzione, di megalomania, o di pura e semplice paura: paura del­l' ignoto, del fallimento, o anche di un successo che mi metterebbe di fronte a conseguenze che temo di non saper affrontare.
Mentre sono intento a una prima stesura del mio lavoro lotto contro demoni di cui sono respon­sabile solo in parte. Poeti defunti, antichi maestri, pa­renti vivi, amori perduti o incomben­ti, malattie, bollette da pagare e rogne di ogni tipo si mettono sul mio cam­mino. Finché è questo il caso va an­cora tutto bene: è da loro che devo guardarmi, non da me stesso. Ma non appena sono arrivato alla parola fine (sempre che ci arrivo), sia che abbia scritto un sonetto di quattordici versi o un poema di cinquecento pagine, l’ombra che debbo affrontare si fa più minacciosa. Inizia il duello interiore della rilettura, l'ordalia del rifacimen­to, l'insormontabile supplizio della riscrittura. L'altro me stesso resiste con tutte le sue forze: dapprima cerca di convincermi, come un sussiegoso Bruno Vespa qualsiasi, che la zoppicante creatu­ra a cui ho dato forma è una splendida fanciulla in minigonna che troverà schie­re di tenaci ammiratori: poi gioca la carta della rabbia e del risentimento: quello che ho scritto avrà pure i suoi difetti, ma è davvero tanto peg­gio di ciò che ogni giorno si scrive e si pubblica in questo disgraziato Pae­se, dove la stella dell'ispirazione è tramontata e la notte della mediocrità regna senza timore di essere sconfitta dall'aurora?
Infine, la terza larva che il demone indossa per ingannarmi è quella della stanchezza della com­miserazione: sì, la mia operina è lungi dall'essere grande: non è nem­meno meritoria di particolari men­zioni; ma nessuno è perfetto, e per­ché mai dovrei giudicare me stesso con una severità che non è pra­ticata da nessuno? Allora, così com'è, la licenzio con qualche indispensabile aggiustamento, tanto più che ne sia­mo stufi, vorremmo passare a un al­tro progetto più allettante e che ci permetterà di dare miglior prova del nostro talento, e poi il giornale o l'e­ditore o il mio destinatario mi aspet­ta al varco, la scadenza è vicina e gli ho dato la mia parola. Tutte giustificazioni comprensibili, di cui però a chi mi leggerà non im­porta un bel nulla. Il lettore, maledizione a lui, legge solo quello che c'è scritto. Perfino Goethe si lamentava che nessuno sembrava essersi accorto dell'enorme lavoro di lima che gli era costata la sua Ifigenia. "È così. a nessuno importa la pena che ti dai", commentò amareggiato. Se il pubbli­co è stato così noncurante nei con­fronti di Goethe, lo sarà a mag­gior ragione anche con me che sono meno di una pulce al confronto del tedescone. E io stesso, una volta che passo dal ruolo di autore a quello di lettore, non giudico diversamente da così. La conclusione, amara e necessaria, è solo una: finché l'opera è ancora nel­le mie mani non sono ammesse fu­ghe, scappatoie o diversioni: devo affrontare e sconfiggere il cava­liere oscuro, colui che mi impedisce di criticare me stesso con la stessa se­verità che di solito uso o tento di usare per qualsiasi altro.
Devo ammettere, però, che trovo conforto da degli appunti che tante lune fa presi durante una lezione-evento di Franco Fortini. Parlava di stilemi di scrittura e di composizione e scomposizione di una prosa o di una poesia e, ad un certo punto, elencò tre metodi critici, presi in prestito da Dalton Trumbo (sceneggiatore di Hollywood esiliato in Messico negli anni 50 a causa del maccartismo che lo aveva messo nella lista nera, dove proprio lì scrisse la sceneggiatura di un grande film antimilitarista, “e Johnny prese il fucile”) di grande efficacia per chi vuole scrivere e come si dovrebbe metterli in pratica:
Scoprire il peggior difetto di quanto si è scritto e quindi tornare indietro pagina per pagina, riga per riga, prendere degli appunti e mettere in risalto tutti i difetti dove il passaggio è più evidente. Gli effetti di questo sistema possono, però, essere devastanti e costringere l’autore a riscrivere tutto daccapo;
Oltre a concentrarsi sul peggior difetto del lavoro, bisognerebbe ritornare sui personaggi. Il vantaggio di questo metodo consiste nel vedere se si è coinvolti a livello personale e che invece di odiare si prova pietà dai personaggi coinvolti nella vicenda;
In questo punto tutto è permesso. Niente è sleale. Lo scopo non è cambiare il libro o i personaggi, ma l’uomo, l’autore, denudarlo dalle sue certezze e costringerlo a riconoscere le sue debolezze per quello che sono; la testardaggine è una brutta cosa, dovunque e comunque si presenti e può portare in molti casi all’insuccesso, di contro l’umiltà porta alla comprensione più profonda delle leggi della Vita.
L’avversario, però, è sempre in agguato anche nei minimi dettagli: la punteggiatura, un apostrofo fuori luogo, un pensiero che s’insinua radente a tutt’altro pensiero, e prima di raggiungere gli stadi superiori dell’idea in cui il combattimento si trasforma in una danza di beltà squisita, mimesi dell’armonia della creazione, sul campo di battaglia della pagina non ci sono trappole così piccole che se ne possa trascurare l’insidia.
Scordatevene di tutto quanto sopra riportato, vale solo per me, l’importante, amici cari, è fare due cose: leggere e scrivere e tutto il resto viene da se.

giovedì 4 settembre 2008

Quando i politici scrivono poesie


Un amico fedele ma burlone mi ha regalato, nell’ultimo Natale, un libro di poesie scritte da un uno che di professione fa il politico e che, per fama, si è pubblicizzato da solo. Il politico in questione è Sandro Bondi, che qui chiamo Ambrogio, per analogia con il famoso maggiordomo della pubblicità.
E’ bastato scorrere qualche pagina per capire che questo libretto è, già dal titolo, “Perdonare Dio”, se non un insulto, un qualche cosa che corrompe l’idea della poesia. Non è perché le poesie in esso contenute siano quasi completamente inesistenti come tali: chi è appassionato di poesia ha il modo di leggere raccolte di versi che generano automaticamente conati di vomito, ma bollare tali innocui libretti come insani virus della poesia sarebbe pomposamente ingiusto. E non è nemmeno perché il loro autore è un uomo politico di professione che occupa poltrone e incarichi che vanno al di la di ogni più fervida immaginazione; in poesia non esistono in non addetti ai lavori e un maggiordomo-onorevole ha altrettanto diritto morale, estetico, intellettuale di scrivere poesia che un carcerato, un docente, e così via.
Allora, che cosa è che non funziona? Quello che non funziona, intellettualmente, esteticamente, eticamente, è che lo scrittore non porti dentro i suoi versi l’esperienza della regione del reale di cui egli è parte; evitando di fare ciò egli realizza non un vissuto, visto come raffinata strategia retorica, ma una forma di reticenza come elusione del proprio dovere di testimone. Un parlamentare che scrive versi come se il Parlamento fosse il Paradiso di tutti i santi, occulta la vita; e un tale occultamento è nemico della poesia. Politica e poesia sono due forme del poiein, - del fare -, nel suo aspetto più demonicamente creativo; diverse sì, ma apparentate dal fatto che entrambe realizzano il poiein al livello della più febbrile intensità.
Che poesie (forse) interessanti avrebbe potuto scrivere Ambrogio se avesse veramente tentato di farci sentire l’eco delle parole nelle sale del potere, l’eco dei passi nei corridoi di Palazzo Grazioli o nella villa di Macherio! Ne vale obiettare che lo scrittore in questione non è un politico sic-simpliciter, ma un maggiordomo a tutto servizio. Se, dunque, avesse tentato di far parlare la sua effettiva esperienza (anche quella di fedele ciambellano) avrebbe scritto o poesie interessanti, o fallimenti fecondi (la differenza tra questi due casi è minore di quello che sembra). Peccato che Ambrogio non ci abbia nemmeno provato a fare qualche cosa di simile, tranne che in una, dedica ad una commessa della Camera: “Dolente fulgore/ mite regina/ misteriosa malia/ polvere di stelle” . Il risultato è questo libretto scheletrito che prende il titolo da una delle poesie che lo compongono: “Perdonare Dio”…per perdonare noi stessi (ma va là) ; una quarantina di poesiole edificanti (ritrattini, composti con mano scivolosa di donne e uomini di potere, glorificati e incensiti come d’uopo per un sacrestano, buoni sentimenti e buone intenzioni di fronte ai problemi della società contemporanea); sono testi non superiori al livello di ciò che appare in certi giornalini scolastici delle medie italiane.
Il dilettantismo in poesia si rivela soprattutto nel privilegiamento esclusivistico, o della tematica, o della forma. Ambrogio è sbilanciato nella prima direzione e viscido nella seconda; è per questo che allora colpisce come uno spiacevole rantolo di vento questa “quartina” dove sembra esserci una presenza ispiratrice rintracciabile nelle canzoni di Apicella, composte dal suo nume tutelare:
A Rosa Bossi in Berlusconi. Mani dello spirito /Anima trasfusa /Abbraccio d’amore /Madre di Dio.
Se è questa poesia (si stenta a crederlo, vero?), si può gettare senza timore nel fuoco con la certezza di non passare per aguzzini della letteratura o, peggio, per proseliti di Fahrenheit. Il perdono, poi, non si nega a nessuno, tranne che ai ministri della cultura.
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