sabato 25 aprile 2009

25 Aprile 2009

Mio padre mi ha insegnato: “ogni giorno nella tua vita, fai in modo che ci sia un pensiero per chi ti ha dato la libertà”. Io ho sempre cercato di farlo anche quando il vento delle cose cercava di offuscare la memoria e, così, per rafforzarla, ogni tanto mi leggo le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana. Sono epistolari di partigiani e patrioti scritti quando essi, catturati da fascisti o tedeschi, già sanno, anche indipendentemente da una sentenza di tribunale o di comando nemico, che verranno uccisi; o ne hanno il presentimento e manifestamente lo esprimono.





Torino, 4 aprile 1944.
“Angeli miei,
ci hanno allungato la vita di 24 ore per sottoporci ad un interrogatorio.
E’ stata una giornata densa di pensieri. Tutta la vita mi è passata innanzi, ma più di tutto, sopra tutto, tu moglie mia, tu figlia mia.
Il cappellano che ci assiste, e col quale ho avuto anche un cordiale colloquio, mi ha detto che svolgendo certe pratiche è possibile riavere il cadavere. Fatelo, a me non importa nulla, ma so che per voi potrà essere un conforto; se, poi, tu facessi la tomba in un posto ove un giorno (molto lontano) ti potessi riavere vicino a nanna con me, allora ne sarei contento. Attenderò quel giorno con tutta la passione mia, ma che venga lontano, in modo che tu possa vedere i figli di nostra figlia più grandi di quel che ho visto io mia figlia.
Il mondo migliorerà, siatene certe: e se per questo è stata necessaria la mia vita, sarete benedette.
Io vi benedico per il grande conforto, per il grande sostegno che la certezza di essere da voi due ricordato ed amato mi dà e che mi fa andare sereno davanti al plotone di esecuzione. La mia fede mi ci fa andare sorridendo.
Tenetemi nel vostro cuore per tutta la vita, come io per tutta l’eternità.
Tuo marito, tuo babbo”.


Paolo Braccini (Verdi). Anni 36. Fucilato il 5 Aprile 1944 al Poligono Nazionale del Martinetto in Torino, da un plotone di militi della GNR. Medaglia d’oro al Valor Militare.


E’ bene ricordare che la libertà non è un’idea ma un bene comune e se di essa non godono tutti non saranno liberi neppure coloro che si reputano tali.

lunedì 13 aprile 2009

Il giallo ti dona – COSI’ COME ORA – 1 -








“Così come ora
sotto gli alberi scuri
dove stanno i grilli
all’improvviso tu smetti di ridere
mi prendi le mani
e le poni sul tuo cuore.”





Il commissario Catalano era quel giorno con l’animo leggero.
Si avviava a piedi verso il commissariato di zona di cui era titolare e per le strade del grigio e operoso quartiere, a dispetto dello smog, un sole un po’ velato annunciava la primavera.
Neanche lo stridore dei tram e la puzza che usciva dai tubi di scarico delle macchine non lo turbava più di tanto; arricciò il naso: “Devo fare come i giapponesi e mettermi la mascherina”, pensò, affrettando il passo. Pur essendo un convinto salutista, neppure l’ambiente degradato e maleodorante del rione dove lui stesso viveva e lavorava riusciva, in quel momento, a fargli cambiare umore. D’altronde, gli appelli del sindaco a limitare l’uso delle auto e moderare quello degli impianti di riscaldamento, erano, come sempre, caduti nel vuoto. Gli alienati abitanti della città continuavano ad usare le automobili e ad avere in casa un clima da tropico del cancro.
Antonio Catalano era, quella mattina, contento di sé.
La sera prima aveva ricevuto un encomio solenne dalle mani del prefetto per aver arrestato una banda di borseggiatori che da mesi seminava il panico nel mercato rionale, la sua vita sentimentale non gli dava preoccupazioni: era stabile come mai in precedenza con altre relazioni e non intralciava il suo progetto di vita.
Era arrivato in questo stato d’animo alla palazzina dove lavorava, addossata quasi sotto al cavalcavia del più importante e strategico snodo periferico dove il traffico scorreva a velocità da incubo. Davanti al portone un africano dalla pelle d’ebano era in attesa che aprisse l’ufficio immigrazione per farsi firmare il permesso di soggiorno: “Apre alle dieci” gli disse, superandolo di corsa. Entrò nel commissariato che erano già tutti al lavoro, si liberò in fretta del giaccone sportivo e si sedette alla scrivania. Allungò la mano e accese il ricetrasmettitore per mantenersi in contatto con le pattuglie in giro per il quartiere. Anche la radio sembrava dalla sua parte quella mattina: nessuna voce allarmata, solo il gracchiare delle onde magnetiche che per lui erano come un sottofondo della musica dei Police che tanto amava. La giornata iniziava bene pensò seguendo lo sciacquio. Prese dal cassetto il lungo pacchetto dei sigari Garibaldi, ne tolse con cura uno, l’annusò da punta a punta e mentre stava per dividerlo in due scoprì che poteva anche farne a meno non avendo bisogno, per adesso, di nessun atto consolatorio. Scorse distrattamente il principale quotidiano della città. Nessuna notizia riusciva a catturare la sua attenzione: né il conflitto tra Israele e Palestina, né l’ennesima drammatica giornata nera dell’economia mondiale. Si fermò solo all’enfasi dei titoli perché tanto gli bastava per vedere il precipizio in cui si era avviato il mondo. Sfogliò, ancora, pigramente, le pagine; terrificanti notizie di cronaca: un padre che violentava da una quindicina d’anni la figlia ma che veniva assurdamente difeso dalla moglie e dal resto della famiglia e il grande fiume Po avvelenato da pesticidi di nuova generazione. Facce allucinate guardavano dal giornale: assassini, stupratori, spacciatori, morti per droga. Tutto come da copione che lui doveva leggere e interpretare in prima persona ogni giorno.
Non era cinico, il nostro commissario e non nutriva particolari avversioni verso il genere umano, ma neppure queste notizie riuscirono a scalfirlo. Mentre stava per uscire dalla pagina delle noir un’immagine, accanto al reportage di un processo per concussione a carico di un rampante politico locale, suscitò la sua attenzione: c’era la foto di un magistrato donna che gli piaceva da morire fin dal primo momento che l’aveva conosciuta. La guardò con particolare interesse: lo attirava quello sguardo rapace e voleva trattenerlo. “Meglio non mettersi nessun pensiero erotico in testa soprattutto con la donna di un amico” si disse, ponendo da parte il giornale.
Bisognava pure che si decidesse a fare qualcosa quella mattina. Rimase per un attimo in sospensione, finché lo sguardo gli cadde su una pila compatta di verbali che aspettavano di essere firmati. Così ordinati, non riusciva quasi a vederli. La nuova segretaria, un agente appena trasferita dalla Sicilia, era precisa, pignola, di quell’ordine da altare officiale: ogni cosa doveva avere il suo posto e più in evidenza, vicine, le cose da trovare subito. Così era per quei verbali che evidentemente per lei avevano l’importanza di un calice per la messa. Quando stava per controfirmare un ritiro di patente per guida in stato d’ebbrezza, la radio cessò di gorgogliare. Una voce meccanica si sovrappose a quella monotona distonia: “A tutte le auto, a tutte le auto”, la solita premessa, “rapina in corso all’Ipermercato le Ferriere, prestare la massima attenzione”.
“E’ a due passi da qui” disse Catalano a voce alta. Poi chiamò, Carmelita, la segretaria, alla quale chiese chi fosse il capo pattuglia per quel giorno.
La ragazza corrugò la fronte: “Grilletto facile, credo”.
La bocca larga e carnosa di Catalano si contrasse in una smorfia. Di tutti i suoi uomini a disposizione il Vice ispettore Pontone era il tipo meno adatto per vedersela con una rapina. Quel soprannome glielo aveva appiccicato proprio lui dopo averlo visto perdere troppe volte la concentrazione e estrarre l’arma dalla fondina senza pensarci due volte. L’aveva rimproverato spesso, sia in via ufficiale che in sede privata, ma lui aveva sempre continuato a comportarsi in quel modo nervoso e incauto. Di trasferirlo non se ne parlava perché Pontone era l’archivio umano del commissariato, talmente bravo da far impallidire i file del computer, poi erano compaesani e le radici non si potevano recidere e, come ultimo, faceva da trade-union per salvare il salvabile di una grande amicizia adesso risucchiata nelle pieghe della marginalità.
Prese il cellulare e chiamò direttamente il Vice Ispettore.
“Dove siete?” gli chiese.
“Stiamo arrivando, commissà”.
“Mi raccomando…”
Non ottenne risposta. Erano già sul posto, probabilmente.
Adesso sentiva il bisogno di una boccata di fumo acre. Prese il sigaro lasciato sulla scrivania, unì i due pollici e con un colpo secco lo spezzò in due. Era arrivato si e no alla terza boccata quando le note di Roxanne dei Police si sprigionarono dal cellulare. Guardò il display: Pontone.
“Allora!” esordì il commissario.
“Venite, commissà, che qui è una tragedia”! Mai l’aveva sentito così disperato e dimesso nei toni.
Il cuore cominciò a martellargli la cassa toracica anche perché la comunicazione si staccò e lui non ebbe altri ragguagli in merito.
“Tre in macchina con me, subito”, ordinò ai suoi uomini.
Raggiungere l’Ipermercato fu una questione di pochi minuti. Nel parcheggio erano già in sosta parecchie autovetture della polizia e dei carabinieri. Nessuno degli agenti impugnava qualche arma e questo era un preciso segnale che la tragedia, se di questa si doveva parlare, era già stata consumata.
Un’autoambulanza fece il suo ingresso nel parking a sirene spiegate mentre il commissario entrava di corsa nella grande hall. Con lo sguardo scrutò il lungo corridoio di marmo lucido che portava ai vari settori commerciali. In fondo c’era un capannello di persone e, in cima alla scala mobile, davanti a lui, altri due gruppi poco distanti tra loro. Si diresse lì. La scala era bloccata. Percorse i gradini metallici saltandoli a due a due. Con una mano scostò, in modo brusco, quel muro umano e si trovò di fronte il Vice Ispettore Pontone. Era seduto per terra. Con una mano si manteneva il polpaccio della gamba sinistra che sanguinava copiosamente, mentre con l’altra impugnava ancora la pistola. Il volto esangue solcato da lacrime che scendevano come un torrente in piena, gli occhi puntati nel vuoto che si rianimarono solo quando il commissario lo interpellò.
“Che è successo?”
“Quello,” e con un cenno della testa indicò l’altro raggruppamento dove si intravedeva una persona distesa per terra, “ha fregato il nostro Luchino ma io ho fregato lui”!
“Come Luchino?”
“Si, Luchino, Luchino”, gridò, disperato. “Andate da lui, Commissà, a me lassateme perde che stongo vivo”.
Il commissario, come se avesse ricevuto un maglio sulla testa, barcollò e si dovette appoggiare al passamani della scala mobile per non cadere. Fu solo un attimo. Ridiscese in fretta le scale e corse come un centometrista verso quel traguardo segnato dal dolore.
“Luchì, fraté, che ti hanno fatto?” gridò, disperato, come se questi potesse ancora rispondere. S’inginocchiò accanto a quel corpo spento, nella piega del dolore, urlando la sua rabbia. Avrebbe voluto voltarsi, scappare lontano, ricordare l’amico nel tempo felice e non in questa circostanza orrenda, ma il senso del dovere lo costrinse a rimanere lì, nel cunicolo cieco di una fine violenta e barbara. Fissò lo sguardo verso quelle labbra violacee già incarnate nella morte. Labbra che avevano riso, sussurrato, amato e che adesso sarebbero state immote per sempre. Guardò con orrore quel foro nero sulla tempia destra da dove usciva una materia grigiastra aggrumata. “E’ stata un’esecuzione” pensò prima di essere sopraffatto da un’intensa emozione. Gli sfuggì un gemito quando un’ordalia d’immagini passò davanti ai suoi occhi. Loro due insieme fin dall’infanzia: il cortile di un condominio, i calci al pallone, le feste di compleanno, la scuola, dalla prima elementare al liceo classico, le ragazze, le speranze, i sogni d’evasione da una città di provincia vista come una gabbia, ma amata come la più preziosa delle gemme. Una laurea in scienze politiche per tutti e due e un concorso nella polizia di Stato vinto brillantemente da entrambi. Il corso da allievo ufficiale a Cosenza e il primo impiego a Palermo per poi trasferirsi a Torino e rimanerci fino a questo tragico epilogo. I gemelli dauni li chiamavano per la loro unità, per il pensiero comune, per le parole d’amore verso una città che, pur essendo stata avara nell’offrire prospettive di lavoro e irrispettosa del loro entusiasmo e della loro intelligenza, veniva ricordata sempre con affetto e nostalgia. I primi anni a Torino furono difficili per entrambi. L’ambientamento, innanzi tutto, in una metropoli in cerca di una nuova identità sociale dopo gli anni grigi, in tutti i sensi, di una monocultura industriale che l’aveva dapprima esaltata e poi gettata nella disperazione per l’assenza di nuove prospettive. In una città che era diventata in pochi anni un crogiuolo di razze, di culture e di religione diverse. Una città in procinto di esplodere ogni giorno ma che riusciva a tenere grazie alla abnegazione di molti che usavano l’intelligenza al posto della violenza e Luca Tonti era uno di questi. Poliziotto fuori e uomo di cultura e di umanità dentro. Per lui il lavoro “sporco” sulle strade non era consono alle sue idee. Preferiva l’indagine e il ragionamento all’azione pura. In questo era dissimile dal collega e amico Catalano più disposto a farsi sopraffare dagli impulsi che disporsi a ragionare e questa diversità di formazione, ad un certo punto della loro carriera, venne a galla.
Un anno prima, con l’avvento del nuovo Questore di Polizia, c’era stato il riassetto degli incarichi. Catalano si aspettava la promozione a vice capo della squadra mobile, per i suoi certificati meriti acquisiti sul campo che,però, non furono sufficienti all’avanzamento di carriera e la funzione fu assegnata, a sorpresa, proprio al suo amico più caro che non vantava certo il suo ruolino di servizio. Luca Tonti era dirigente capo dell’ufficio stranieri, un ruolo importante ma non paragonabile a quello di un pari livello impegnato in prima linea contro malfattori di ogni genere e schiatta. Questo era il pensiero di Catalano che un giorno lasciò andare alla deriva la sua rabbia con l’amico non risparmiandolo di critiche e sospetti. Luca aveva ascoltato i suoi sfoghi con pazienza, manifestando anche il suo stupore per quella nomina inaspettata ma, poi, Antonio, fece un passo di più del consentito, più di quanto una seppur consolidata amicizia permetteva. “Non è che i tuoi rapporti idilliaci con la magistratura abbiano influenzato i nostri superiori in questa scelta?”. Non fu per niente ironico Catalano, voleva colpire e pensava di aver trovato il punto debole di congiunzione. I rapporti idilliaci erano quelli che intercorrevano tra Luca e Carla, un giovane magistrato del Tribunale locale. Gli occhi di Luca fiammeggiarono, e Antonio trasalì: in quello stesso momento aveva capito di aver passato il limite, di aver contaminato con prodotti tossici il fertile terreno morale dell’amico. Da quel momento tutto il verde di quel lungo e inossidabile rapporto divenne nero petrolio, il calore dei sentimenti diventò vischioso come la brina d’inverno e i rubinetti da cui sgorgava la linfa della fratellanza si chiusero per sempre. Solo il vice ispettore Pontone, amico di entrambi, non si rassegnava a consegnare quel sodalizio perduto agli annali del tempo. Lottava da par suo,a volte inventandosi frasi ad effetto da loro mai profferite, affinché tutto tornasse come prima ma doveva fare i conti con lo spropositato orgoglio che li intossicava ogni giorno di più. Nessuno dei due mollava di una virgola, nessuno dei due era intenzionato ad ammettere i propri errori e nessuno dei due era disposto a fare dei passi verso l’altro. Erano diventati l’uno con l’altro dei fantasmi. Potevano essere anche spalla a spalla ma era come non esistessero almeno fino a quel giorno in cui la morte aveva livellato ogni angheria ripristinando, paradossalmente, l’amicizia perduta. In quel preciso momento per il commissario, era come se la vita si fosse ampliata: vedeva di più, sentiva di più e sapeva con certezza di aver amato molto di più. Di più della normalità, così, come ora!



Frator, 13 Aprile 2009






















martedì 7 aprile 2009

Libordo


Libordo partì per l'America subito dopo la guerra, e io me lo immagino, grande e grosso com'era, ottimista, volenteroso e forte. Lo immagino lavorare in qualche miniera, o in qualche impresa di costruzioni. Sicuramente abitava in qualche monolocale del bronx, lui la moglie e il figlioletto. Questi monolocali ai piani alti di questi palazzoni americani, se ne vedono tanti al cinema: mi viene in mente quello di DeNiro in Taxi Driver (a colori) o quello di Sterling Hyden di Rapina a mano armata, (in bianco e nero), io me lo immagino in bianco e nero, questo monolocale: senza ascensore, la scala antincendio che attraversa l'unica finestra, le pareti di cartone che ti filtrano tutte le conversazioni, tutti i litigi del vicino. No, la televisione non c'era, perche' era stata inventata da poco, e i soldi erano ancora pochi all'inizio della avventura americana.Alla sera, dopo mangiato, Libordo si lavava e si coricava, e aspettava che il figlio Giovannino si addormentasse, per scopare la moglie.
Nel buio: "Giuvannì?"
"Che c'e'?"
"Che stai facenno?"
"Me sto addurmentanno, papà".
Libordo imprecava in silenzio, perche' le ore di sonno erano poche, e domani sarebbe stata un’altra giornata di lavoro dura, durissima. “Giuvannì?"
"Che c'e'?"
"Che stai facenno?"
"Stèv rurmenno, papà, che e' succiess? Rispose il figlio con la bocca impastata, le parole incerte.
Dopo, ancora molto dopo:"Giuvannì?"(silenzio)"Giuvann'?", con un tono di voce un pò più alto, per accertarsi che Giuvannino dormiva davvero."Giuvannì?... s'e' addurmut, Assuntì, iamm!"
"Addò iamm, papà?"

Contributo di Sabato Cuomo







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