lunedì 6 marzo 2006

FRONTERA CANIBAL


Yo soy un hombre sincero de donde crece la palma, yo soy un hombre sincero de donde crece la palma y antes de morirme quieto. Echar mis versos del alma. Guantanamera, guajira Guantanamera Guantanamera, guajira guantanamera.
La gracchiante radio dell’ autobus o forse un sobbalzo più violento del solito mi riporta alla realtà, svegliandomi da un pesante sonno. L’autista intona un improvvisato karaoke su questa famosa canzone e lancia sullo sterrato la vecchia e cigolante corriera. L’altopiano del Guatemala, si è definitivamente allontanato lasciando il suo posto ad un orizzonte infuocato dal sole striato dell’alba. Il pullman, ovvero sia quell’ammasso di ferraglie arrugginite, messo assieme da mani frettolose, era partito da Antigua, l’antica capitale maya del Guatemala a mezzanotte e dopo una lunga sosta a Cuilco, uno scorcio di Svizzera nell’altopiano guatemalteco, per imbarcare i campesinos, aveva proseguito il suo viaggio incuneandosi tra le gole e gli strapiombi del Cuchumatanes, un elevato e tortuoso corridoio selvaggio lungo nove chilometri tra il Guatemala e il Chiapas, con tappa finale ad Amatenago de la Frontiera, meglio conosciuta come Frontera Canibal, già qui il nome era tutto un programma e doveva farmi pensare di più ai pericoli che potevo andare incontro. Ero stato costretto a scegliere questa pericolosa tratta d’altura per la paura di passare il confine di Comalapa, più comodo e più breve di questo ma dove, due anni prima, ero stato derubato di tutti i miei averi, cioè poco, ma quanto mi bastava per il soggiorno in Mexico. Mille pensieri mi balzano in testa; frenetici come un nugolo di mosquitos impazziti per la pioggia: “Riuscirò ad attraversare indenne la frontiera senza che mi requisiscono il materiale didattico che porto agli indios o mi fanno pagare un dazio esagerato?”, è la considerazione predominante. Guardo i passeggeri, rannicchiati l’uno sull’altro sui malsicuri sedili in finta pelle della vecchia corriera. Altri sono in piedi ma si reggono a fatica. Angosciati, sfuggono il mio sguardo. Volti segnati dalla durezza della vita. Profili maya dalla pelle scura. Occhi orientali dalla parlata spagnola. Guardano oltre la polvere addensata sui finestrini. Distolgo lo sguardo da loro per non sembrare troppo curioso della miseria che si portano addosso. Un’improvvisa frenata anticipa che stiamo per arrivare a destinazione. Un’ampia curva a gomito presa in velocità fa ringhiare i copertoni sullo sterrato e l’autobus sbuffante entra nell’area della frontiera riservata ai bus, lasciando per terra una lunga scia d’olio. Tutto intorno si respirava un'atmosfera strana di attesa; da un lato un casotto di deposito per le derrate alimentari e per il ricovero degli animali, dall'altro una piccola costruzione ove è sistemato l'ufficio di frontiera, qualche baracca di lamiera ondulata persa tra le grandi foglie verdi dei banani e alcune galline che si beccavano ai lati della strada, poi il filo spinato sparso qua e là che correva sui paletti di legno e il sole che spargeva dappertutto luce intensa e calore. Un cane di confine secco allampanato, di colore indefinito, proveniente dalla terra di nessuno, passò furtivo sotto la sbarra di frontiera, pisciando due gocce sul primo palo del territorio del Messico. Mentre la nuvola di polvere, prodotta dalla frenata sul selciato della corriera, lentamente si dissolveva apparve, si delineava, prendeva forma e contorno la nuova scena: ragazzini, pacchi, cose, derrate, macchine scassate, furgoncini per trasporti animali e umani, commercianti, venditori di frutta, rumori, panni, stracci, colori, cartacce, sporcizia, mais bollito o cotto sulla brace, campesinos con machete lunghissimi che facevano impressione, donne avvolte in panni coloratissimi e poi ancora odori, fumi di scarico, confusione. Alcuni cambia valute osservavano il tran-tran per capire se valeva la pena avvicinare qualcuno per offrire il cambio. Coi loro cappelloni chiari e i borselli di nylon legati alla vita, con i baffi lunghi e la barba incolta, le T shirt bianche e lo sguardo furbo della gente di strada, rimanevano immobili a confabulare tra loro ad allungarsi, a stendere tra le dita i loro baffetti neri nei pressi della sbarra che segnava il limite di frontiera vicino al cartello segnalatore del confine con la scritta Mexico-Guatemala. Il posto di blocco era straordinariamente rinforzato da militari in divisa e in borghese addetti al controllo dell’immigrazione, che indossavano semplicemente una maglietta bianca e capellini da baseball rosso fucsia. Erano già in azione. Dopo aver fatto aprire le porte anteriori e posteriori entrarono a gruppi di due sull’autobus. Ridiscesero subito dopo portando in manette un povero campesino dalla faccia brunita e lo trascinarono verso una piccola baracca di legno e lamiera ai margini della strada, mentre invano questi cercava di farfugliare qualcosa mostrando un foglietto spiegazzato: probabilmente il suo permesso di soggiorno temporaneo, della durata di venti giorni, rilasciato per motivi di lavoro era non in regola o irrimediabilmente scaduto. Per un attimo i suoi occhi incontrarono i miei. Era grondante di sudore, gli occhi neri e tristi, lo sguardo perso, implorante e terrorizzato dalle canne dei fucili a pompa dei militari. Indossava una camicia bianca dal colletto consumato; il bianco per tutti i sudamericani rappresenta la purezza, la pace, la tranquillità, forse per lui era un indumento importante che aveva indossato appositamente per affrontare quel viaggio della speranza. Prima di entrare nella zona d’ombra della baracca, l’uomo si tolse l’unto cappello di feltro e lo lasciò cadere mollemente per terra, quasi a occupare fisicamente quello spazio geografico con la speranza di tornare e di riappropriarsi di quel viaggio pagato lautamente; se ne andò senza voltarsi sospinto e strattonato dai gendarmi. I poliziotti tornarono subito dopo ma, questa volta, fanno a meno di salire sul torpedone. “Todos abajo, adelante”, grida un militare. Scendiamo dalla corriera. Volti impauriti mi guardano come per cercare soccorso o un anelito di speranza. Un sottufficiale con tanto di mostrine argentate sulle spalle, mi si pone davanti. “Trajame su tarjeta” Que hace a quì? Seis voluntario comunista, amigo de Marcos?" (Dammi i documenti. Che cosa fai qui? Sei volontario comunista, amico di Marcos?). Il tono di voce è arrogante e minaccioso.
“Soy italiano, maestro de escuela, amigo vamos che pasa? Porque non se puede estar aqui, tiengo el permiso de l’ambajada de Italia, intiendes? Juve, Milan, amigo, Italia, Italia!” gli rispondo, controllando a fatica l’affanno che s’insinua nella mia trachea. Un sorriso addolcisce il viso del sergente: ho la sensazione di averlo convinto. Ci fanno risalire tutti sul torpedone. Ora gli occhi dei miei provvisori compagni di viaggio sono quieti e le bocche, seppur disegnate ancora dallo spavento, sono predisposte al sorriso. Mentre ci allontanavamo da quel luogo di paura, tutto in prospettiva diventava piccolo, distante dopo la prima curva, passato. L’autista accendeva lo stereo, alzando timidamente il volume, un suono di marimbas usciva prepotente dagli altoparlanti ma la mia tristezza sarebbe rimasta in quell'abitacolo fino alla fine di quel faticoso viaggio, mentre le prime distese piane di erba verde del Chiapas, come fotogrammi di un film, scorrevano dai finestrini. Tutto quello spazio non bastava per disperdere la malinconia. Tra le mani giravo e rigiravo il panama di feltro, gettato nella grigia polvere della frontiera dal campesino e che io avevo furtivamente raccolto per conservarlo come un simulacro di libertà. Quel contadino mi aveva implicitamente insegnato che l'immigrazione è la risposta, l’unica possibile, dei popoli disperati che non vogliono mai perdere la speranza di sopravvivere ad ogni costo. In ogni diversità, in ogni sofferenza, c’è una strada in comune da percorrere fino in fondo: la strada del dialogo e dell’amore.

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