giovedì 9 marzo 2006

Sulfurea 1


Arriva con il vento, mi sgrana gli occhi addosso e si accomoda sotto l’ombrellone vicino al mio. Si vede subito, dal suo sguardo timido e incerto, che è la prima volta che frequenta la piscina termale. Di lì a poco, come sospettavo, alla luce delle mie ripetute frequentazioni di questo posto, mi chiede qual è il sistema migliore per aver accesso alle prestazioni e ai servizi che il complesso termale offre ai suoi clienti. Si è soliti credere che il modo migliore per conoscere le cose sia evitarle, non chiamare l'amico che ti svelerebbe l'esito della partita, non ascoltare il telegiornale, lasciare che il tutto si consumi da sé. E invece qui, quasi tutti, diventano curiosi. Giungono baldanzosi, felici di essere a contatto con la natura, poi si fanno prendere dall’ansia quando si trovano di fronte ai forsennati meccanismi tecnologici che espellono ettolitri d’acqua sulfurea. Sentendosi spiazzati, chiedono ragguagli in merito. Alcuni si accontentano di sapere solo l’aspetto burocratico e finanziario della cosa, altri, invece, esigono spiegazioni più precise sulla qualità delle acque e sui loro effetti benefici. E’ in questi casi che in genere si scatena la mia fantasia, ed è proprio questa che utilizzo con la nuova ospite. Le racconto dei prodigiosi risultati che si possono ottenere con il turbo massaggio, dei vantaggi sulla psiche se ci s’immerge nel caldo crogiuolo della vasca sulfurea e della sublime qualità dei fanghi cosparsi sul corpo all’aria aperta. Mi guarda con stupore, il naso arricciato nella smorfia ai margini tra sorriso e fastidio. Il confine tra realtà e menzogna, é molto stretto, ed io non l’ho valicato, mi sono limitato a dilatare un po’ le cose per produrre sconcerto. Lo faccio con tutti e anche questa volta non mi tiro indietro. Potevo farlo perché mi trovavo davanti ad una ragazzina intimorita ma, a volte, l’istrione che é in me mi vietava di fare distinzioni d’età e facilitare le ansie altrui. In fondo, come dicono gli attori consumati, la platea è vasta ed eterogenea. Lei gira su se stessa, raccoglie da terra la sacca rossa di plastica che contiene i teli di spugna e, senza salutare si avvia, strascicando i piedi nudi, lungo la stradina in doghe di legno d’acero che conduce alle vasche. “Una mocciosa maleducata”, l’etichettai. Quanti anni poteva avere? Tredici, quattordici, forse quindici, più in là, onestamente non si poteva andare. Era la sua altezza che faceva sballare le lancette della temporalità. Ben di rado, nelle nostre latitudini mediterranee, si vedevano adolescenti così sviluppate: gambe interminabili, ben tornite, che sorreggevano un corpo sodo che solo sui fianchi, leggermente adiposi, manifestava il non completo sviluppo della sua figura. Una faccia da schiaffi, dominata da una bocca larga e asimmetrica che, quando sorrideva, mostrava un ghigno beffardo e una massa di capelli corvini che scendevano fluenti sulle spalle. Non era una bellezza che colpiva al primo sguardo ma aveva un qualcosa d’indefinibile, d’insolito, che la rendeva interessante, quasi conturbante. In ogni modo, rimaneva una ragazzina, pertanto ogni fantasia, ogni pensiero su di lei era da scartare sul nascere; con la coda dell’occhio, noto che si porta nei pressi dell’isola circolare, dov’è installato il punto di raccolta dei tagliandi, per le prestazioni balneo-sanitarie e di smistamento alle vasche, dei clienti. Lì dominava, da sempre, o almeno da quando io venivo qui, la figura di Mario, l’assistente termale: un ragazzone di trenta anni, aitante e con muscoli rassodati in palestra, perennemente abbronzato. La sua bontà e generosità erano note a tutti i vecchi frequentatori delle terme, che potevano sempre contare su di lui per ogni necessità. C’era solo una cosa che lo faceva andare in bestia: chiamarlo bagnino. “Meglio che mi dicano cornuto piuttosto di bagnino”, confidava agli intimi. E, adesso, dalla sua faccia ancora più nera del solito, sembrava che qualcuno l’avesse proprio apostrofato in quel modo. Non poteva che essere stata quella ragazzina, infatti, era l’unica persona che sostava davanti alla reception. Sorrisi e mi sollevai dallo sdraio. Adesso era il momento buono per fare due cose: salutarlo, oggi era il mio primo giorno di terapia, e tentare di sdrammatizzare la situazione. Ci abbracciammo con il solito calore, nonostante fosse passato un anno. “Che deficiente quella lì”, esordì, ad alta voce.
Mi voltai di colpo per timore che l’insulto fosse giunto alle orecchie della giovane ma quella, intanto, si era tuffata nella piscina sollevando nubi di schiuma sulfurea. “Tutte qua vengono!” disse ancora, additandola, con rabbia.
Aveva ragione, questa volta, ad adirarsi: nelle piscine non è, in genere, permesso tuffarsi e particolarmente in quelle sulfuree come questa dove, una goccia di zolfo, spruzzata violentemente nelle pupille, può riservare spiacevoli conseguenze alla vista. “Ne abbiamo visti tanti in questi anni comportarsi così, porta pazienza”, gli dissi, per consolarlo.
Il suo volto sembrò rasserenarsi, ma le parole che seguirono furono ancora pungenti: “Basta vedere il costume da bagno che indossa per classificarla come una zoticona”. Anche questo, purtroppo, era vero. Infatti, portava un due pezzi alla “bulgara”, con gli slip a vita alta e il reggiseno avvolgente, che cosa, poi, doveva avvolgere? Il colore principale era imprecisato, perché soffocato da una tramatura infinita d’improbabili fiori giallastri.
“Non è il caso di infierire. Non ti pare, Mario?”
Scosse ripetutamente la testa facendo scivolare indietro i capelli che, a differenza dei miei erano ancora copiosi. “Beh, e Lucia non è scesa in piscina?” mi domandò.
La sua sana curiosità fu appagata solo da una labile ed evasiva risposta: “Non è venuta quest’anno”. Adesso non avevo voglia di spiegargli come tra me e Lucia fosse caduto il silenzio. C’erano stati, nei sette anni di convivenza, momenti d’incomprensione che traevano origine dalla mia rabbia del vivere correttamente il quotidiano e dall’insoddisfazione, da parte sua, di non coronare con il matrimonio una storia che si protraeva da qualche tempo ma, alla fine, lei aveva deciso di staccare la spina. Lei romana de Roma, io piemontese di Vercelli. Ero venuto nella capitale col proposito di inserirmi nel mondo della critica, del giornalismo e, magari, della televisione. Purtroppo, lo scarto tra desideri e realtà che, nei sogni di un giovane laureato in lettere, s’era configurato come un sentiero agevole da percorrere con letizia da parte di chi crede di avere capacità e vocazione, si era, invece, nell’urbe, rivelato una scarpata impervia, popolata da falchi famelici, come quelli che, una volta, si libravano sulle risaie e delle cui malefatte ancora i vecchi cacciatori raccontavano davanti a una bottiglia di Gattinara. Così, dopo una serie di tentativi in quelle direzioni, ripiegai sull’idea dell’insegnamento nelle scuole dello Stato. Ma, lo Stato, i concorsi non li bandiva e io, nella lunga attesa, era costretto ad arrangiarmi con le lezioni private di latino e con qualche tesi di laurea. A Vercelli, però, non sarei tornato! Certo la porta di casa delle mie zie, che si sono prese cura di me fin dagli undici anni, per la fatica di sopravvivere dei miei genitori, era sempre aperta, anzi sarebbero state felici, le vecchiette, di tener ancora vicino il nipote, tanto affettuoso, tanto giudizioso; ma io, mai e poi mai, avrei mostrato le mie ferite alla malignità degli amici che erano rimasti, attaccati come le ventose dei polipi, in quella piccola città di provincia. Tra i quali peraltro, circolavano notizie mirabili sui miei successi romani. Non le avevo diffuse io quelle notizie: s’erano diffuse da sole e, nel diffondersi, s’erano trasformate. Mi ero semplicemente limitato a dire d’aver fatto domande, d’aver inoltrato istanze, di poter contare su qualche appoggio autorevole, di avere buone speranze, buone probabilità… niente di più. No, non sarei tornato! Era meglio stare dov’ero. E poi e poi, nella grande città, l’incontro decisivo, quello che ti cambia una vita, può sempre avverarsi… Le speranze, si sa, sono recidive, come i vizi. Insomma, con questa fiammella, riposta in quella zona dell’anima neutrale, che gli psicologi chiamano preconscio, tiravo avanti una vita angusta, e ristretta anche dal punto di vista topologico. Abitavo, infatti, una stanzetta, tre metri per tre, presso un’affittacamere avara e accidiosa fino al grottesco, che si faceva chiamare signorina Betty, ma che, dentro di me, appellavo come Miss Mortiria. Quando Enrico, un mio amico liceale, che per mestiere faceva il rappresentante sindacale dei giovani studenti, mi offrì, su un piatto d’argento, un lavoro nell’ufficio stampa del più importante sindacato italiano, con un contratto duraturo e un compenso sicuro, che debordava dai contenitori dei miei sogni più chimerici, mancò poco che non mi mettessi a saltare come il ballerino Roberto Bolle, mio corregionale, e a fare meglio di lui le piroette. Trovai una casa in affitto più degna e più ampia, in un grande condominio della prima periferia romana. Poi venne Lucia come una leggera nuvola d’Agosto che non provocava danni. Non fu una passione che mi sconvolse, solo un amorazzo che doveva durare poche notti e che, invece, si mantenne in piedi, tra alti e bassi, per sette anni. La crisi di rigetto di Lucia avvenne a febbraio. Eravamo in cucina a consumare la colazione del mattino. Stavo leggendo la rassegna stampa dei quotidiani, appena scaricati da Internet, quando lei, abbassandomi violentemente un foglio, disse: “Io ti lascio!” Sulle prime stentai a crederci. Pensai ad un suo attimo di stanchezza, alla difficoltà di trovare un posto di lavoro stabile, o alla mancanza di un figlio ( n’avevamo parlato tante volte, senza mai trovare il coraggio di metterlo realmente in cantiere). Dal suo sguardo glaciale capii che questa volta poteva fare sul serio. “Perché?” fu l’unica cosa che fui in grado di dirle. “Non mi dai più entusiasmo!” mi rispose con eguale glacialità. Si allontanò dirigendosi verso il bagno. Quando uscii la salutai da dietro la porta e lei rispose al mio saluto. “Le è già passata”, pensai. Alla sera, al mio rientro in casa, non la trovai più. Di lei non c’era più niente: i suoi vestiti, il necessaire, i libri della Allende, i centrini della nonna, le saliere artistiche, il quadro firmato, ereditato da uno zio e altre cose, tutto sparito, svanito nel nulla. Dopo qualche giorno ricevetti una sua telefonata: “Sono viva, ma per te è come fossi morta, dimenticami!” Non fu facile dimenticarla. Dopo sette anni di convivenza rimangono delle tracce, dei gesti, delle parole, dei momenti di passione e dei momenti di noia che non si possono resettare. Poco prima di venire alle terme, la vidi in un supermercato della capitale. Stava facendo la coda ad una cassa. Non era sola. Con lei c’era un uomo massiccio, alquanto attempato. Rimasi ad osservarla nascosto dietro uno scaffale di prodotti intimi. Pareva serena, i capelli biondi pettinati con un taglio nuovo, le unghie laccate, come mai prima, le labbra ben marcate da un rossetto cremisi. Il conto fu pagato dall’uomo e dal gesto intuì che ormai quei due erano una coppia consolidata. In quel momento, chissà perché, mi venne in mente una citazione di Cicerone: “Habet enim praeteriti doloris secura recordiato delectationem”. - procura piacere il ricordo sereno di un dolore passato - . Non mi sentivo tradito né, tanto meno offeso, anzi, vederla così tranquillizzata attenuava i miei sensi di colpa nei suoi confronti.
“Signore, ehi, signore”. Mi girai di scatto in direzione della voce. La ragazzina era appoggiata con la testa ai bordi della piscina d’acqua tiepida.
“Dici a me?” domandai, sorpreso.
Lei mi guardò sorridendo, mostrando una dentatura avviluppata da un intrico di fili metallici grigiastri, che prima non avevo notato. “Si, si, proprio a lei”.
Per fortuna, che, almeno, non usava il voi, ancora molto frequente nel Sud.
“Che c’è?” risposi, cercando di apparire il più rilassato possibile.
“Per caso ho lasciato i miei sandali vicino al suo ombrellone?”
Risi di gusto al sentire quella domanda e riuscii a smettere solo quando mi accorsi del suo sconcerto. “Io non li ho visti, ma posso affermare che hai raggiunto le vasche a piedi nudi. Adesso non so dire se i sandali li hai dimenticati a casa o meno”. Mi resi subito conto di essere andato sul pesante, tentai di porre in qualche modo rimedio alla gaffe ma lei si staccò dal bordo vasca, immergendosi subito. Fu verso mezzogiorno che decisi che era giunto il tempo di “saggiare” l’acqua sulfurea. Scelsi, come sempre, la vasca dell’idromassaggio dolce, molto calda, per poi passare, dopo molto tempo, nella vasca a temperatura più mite. Il sole d’Agosto martellava come un instancabile fabbro e quell’acqua così fresca riservava un piacere senza pari. Assunsi una posizione dorsale a pelo d’acqua, protendendo la faccia verso il sole. Finii quasi per addormentarmi quando fui destato di soprassalto da uno schizzo killer che, di filato, raggiunse la cavità dell’occhio destro. Vuoi l’imprevedibilità, vuoi la paura, per il bulbo oculare sensibilizzato da una recidivante congiuntivite e, il passaggio tra la ragione e la rabbia furono questione di attimi.
“Ma chi è quel cretino?” urlai.
Si levò una vocina che, ahimè, avevo già sentito.
“Non l’ho fatto apposta, signore. Io stavo solo nuotando.”
Dio, non avesse mai usato quell’ultimo termine. Vincendo il bruciore agli occhi, sbraitai. “Ma lo sai che in questa piscina termale è vietato nuotare. Se lo vuoi fare, vai al mare, oppure vai al diavolo che forse è meglio per tutti”.
Non la vidi uscire perché ero troppo impegnato a proteggermi l’occhio danneggiato. In seguito, mi riferirono, d’averla vista piangere.

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