martedì 7 marzo 2006

NA NOIT A BURGHI (Una notte a Borgaro)


Il parco Chico Mendez è un’area sconfinata che sorge alle porte di Torino. E’ nato alcuni anni fa dalle macerie di vasti insediamenti industriali, prevalentemente siderurgici, che hanno causato profondi danni ambientali. In un primo tempo venne utilizzato come libera discarica poi, sotto la pressione di un pugno di ecologisti illuminati, si pensò trasformarlo in un luogo dove la natura poteva trovare libero sfogo. Durante il lungo inverno non è altro che una deserta brughiera poco frequentata ma, in estate, diventa una specie di zona franca che si divide tra le passeggiate ecologiche nei prati verdeggianti e il divertimento che, in questo contesto, diventa una specie di liberazione dagli assilli quotidiani, pur rimanendo destrutturato da costruzioni in pianta stabile. Tutto qui è provvisorio. E’ una baraccopoli votata al sollazzo con i suoi ristoranti che emanano odori d’arrosto bruciacchiato, le sue birrerie, i win bar dalle improbabili etichette, le sale da ballo che sparano indifferentemente musica house e ritmi sudamericani, i box dei videogiochi dove escono monocordi di note sincopate e, in fondo a tutto questo bailamme c’è il teatro Chico Mendez, che risente anch’esso della provvisorietà ambientale. Infatti, non è nient’altro che una gigantesca tenda canadese di forma oblunga dove al posto dei lettini da campo ci sono le sedie e al posto della cucina il palco. Arrivo qui alle 20,30, vincendo l’impazienza che era dentro di me da più giorni. Casa mia, pardon, la casa dove vive mia “mare” è ad un tiro di schioppo. Nelle giornate di gran caldo, come questa, quando i balconi sono necessariamente aperti, la musica suonata nel parco entra piacevolmente o, secondo i casi, fastidiosamente nell’abitazione. Ma io sono qui, dal vivo, e non vedo l’ora che la festa cominci.Parcheggio la macchina in un’area riservata proprio di fronte alla biglietteria. In Piemonte non piove da mesi, tutti che si lamentano della scarsità d’acqua, dei fiumi in secca eppure, per uno strano caso, tra il parcheggio e la biglietteria c’è un mare d’acqua stagnante dove svolazzano nugoli di zanzare, che mi costringe ad un lungo periplo. Sarà acqua sorgiva o il frutto di un furbastro che ha pensato bene di lavarsi l’auto? Con questo dubbio amletico faccio il mio ingresso nell’area riservata allo svago. Il caldo si fa sentire e la camminata che mi aspetta tra la ghiaietta del lungo viale non è tra le più piacevoli. Nella piazzetta antistante il teatro ci sono ancora poche persone. Butto uno sguardo in giro alla ricerca di facce d’avatar del mio sito ma non ne riconosco nessuna, nemmanco quella ragazza che, in tutta fretta, sta attaccando, un’ora prima dell’inizio del concerto, i manifesti di Baccini, alla faccia dell’organizzazione perfetta così strombazzata dai responsabili di questo festival. “Cominciamo bene”, mi dico, avvicinandomi al bianco tendone dove si terrà lo spettacolo. All’ingresso ci sono tre ragazze che hanno tutta l’aria di essere delle mascherine addette ad accompagnare al proprio posto gli spettatori. Presento a loro il mio tagliando ma queste si ritraggono. “Mi debbo sedere adesso o posso ancora aspettare? Non è che perdo il posto?” domando. Abbozzano una risatina e una di loro, una ragazza dai lunghi capelli castani che scendono morbidi, morbidi sulle spalle mi dispiega un largo sorriso che sa di complicità e con la mano m’indica la scarsità degli astanti che occupano alcune sedie. “Se va avanti così…” sussurra mestamente. “Ah, bene, eh, eh, anche se non va bene per niente. Allora, faccio un giro e poi torno”, affermo cercando di dimostrare una certa sicurezza nella riuscita della serata. Mi allontano ma vengo subito assalito da alcuni dubbi. Quelle facce, quei lineamenti, mi sembra di averli già notati. Torno sui miei passi e, sulla maglietta di una ragazza, noto un nik e un www. che indica la nostra fratellanza di sito. “Tu sei Didol!” grido e lei, dimostrando un po’ di stupore nel trovarsi di fronte ad un adulto di alto lignaggio d’età e, che per di più, conosce la tipologia del suo sito, non può far nient’altro che accondiscendere. Ma lo fa con grazia, con naturalezza e con una disinvoltura che è tipica delle persone che vivono con l’entusiasmo spiaccicato addosso. “E tu, tu, chi sei?”, mi domanda, incuriosita. “Beh, io sono Frator”. Ecco l’esplosione di gioia da parte di tutte e tre le ragazze, ecco il manifestarsi dei nostri abbracci e la condivisione dei nostri sentimenti verso un’artista che ci è caro. Cecilia, dai lunghi capelli e dal sorriso dolce; Didol, effervescente e dagli occhi magnetici, Sbabi, scura di carnagione e dai lineamenti volitivi, sono le tre topolarde che mi danno il primo vero sussidio d’accoglienza. Ci vuole ancora un po’ prima che lo spettacolo abbia inizio e così pensiamo bene di rifocillarsi. Le nostre strade, però, si dividono. Loro raggiungono una tavola calda che è a pochi metri dal capannone telato, mentre io, controvoglia, devo ritornare alla macchina per prendere i C.D. del Baccio, che avevo sciaguratamente dimenticato. Strada facendo, m’incrocio con un terzetto che lentamente stava raggiungendo l’area degli spettacoli. Il tipo che sta in mezzo mi ricorda qualcuno. “Tu sei Bernini”, gli faccio e lui, sbalordito, mi guarda come se fossi un marziano appena sbarcato sulla Terra. “Magari”, mi risponde, “non starei qui ma a Roma ad occuparmi del porticato di San Pietro”. Detto questo, si allontana sghignazzando e io rimango un poco frastornato a guardarmi le punte dei piedi…Quando ritorno c’è sempre la solita poca gente di prima: prendo posto al tavolino di una birreria, capisco subito di essere il loro primo cliente. Ordino una birra scura media e aspetto. Mentre sorseggio il delizioso malto mi viene in mente una frase di Cesare Pavese che sta nel suo Mestiere di vivere: “La sola regola eroica: essere soli, soli, soli”. Ma questa solitudine sarà poco duratura. Di lì a poco transitano altre tre persone, due donne e un maschio adulto. Sembra una famigliola in vacanza. Questa volta, azzo, non mi posso sbagliare. “Ciao Bernini,” dico a volce alta, per coprire la musica di sottofondo che aveva appena iniziato a rompere quella surreale atmosfera di pace. Lui si ferma di botto e mi guarda con un sorriso sghembo. “Ebbene sì, lo ammetto, sono io!” mi risponde prontamente. Si siedono al mio tavolo e fin da subito ho la sensazione di conoscerli da sempre: Berni, la sapienza e la modestia, Sibilla, la pasionaria che affascina, Iaia, la piccolina con la testa che ragiona molto più di una trentenne emancipata. Sono venuti da Genova con il treno e poi hanno preso dalla stazione di Porta Nuova un tassì che li ha portati fin qua senza strozzarli più di tanto. E’ una delizia stare con loro. Non ci stanchiamo mai di parlare e di trasmetterci le nostre sensazioni. Cominciamo ad organizzarci per lo spettacolo. Io tiro fuori la mia fotocamera, acquistata il giorno prima proprio per quest’occasione e ammetto, senza reticenza, la mia assoluta incapacità d’usarla e di fornire un servizio decente ai topolardi che non sono qui.. Ma c’è il Berni e tutto s’aggiusta. Ci penserà lui a documentare l’evento con la capacità che gli è propria. Anche Iaia ha comperato da poco la micidiale macchinetta ma lei è giovane ed è nata con l’elettronica incorporata e non avrà problemi ad usarla. Sibilla, invece, è più tradizionalista, infatti dispone di una massiccia macchina fotografica, con tanto di rullino, che però offre risultati di riuscita certi.Scopro che Bernini è come lo stame di un fiore che attira api che, in questo caso, sono le topolarde. Adesso il nostro tavolo è circondato da loro. Berni si alza continuamente per salutare e abbracciare tutti con calore. C’è Sky, l’esuberante Sky, con tanto di marito al seguito che l’ha accompagnata da Milano e poi cè la topolarda doc, doc e ce ne metto un altro, doc, che risponde al nome di Crazy. Lei, oggi, realizza un sogno: vedere Baccini nella città in cui è nata e nel paesello che l’ha ospitata per diversi anni. E’ felice e la sua felicità ci contagia. “Contenta, eh, Craxi” le dico. Si la chiamo proprio come il fu Bettino, ma mi viene così, forse sono i fumi della birra che iniziano a fare effetto. Bernini s’accorge del mio lapsus e lo sottolinea con la solita puntuale ilarità. Ed è con questo spirito dissacratorio che entriamo nel forno del teatro. All’appello mancano due topolarde doc: Ele, lo storico Strabone, in versione femminile, della gesta del Baccio ed Eilan la voce narrante delle sue odissee. Volevo tanto conoscere queste cultrici Bacciniane, ma non sempre si può avere tutto dalla vita.
Prima che lo spettacolo inizi alcune intraprendenti topolarde attaccano dei lunghi festoni rivolti verso il palco, inneggianti ai topolardi d’Italia e firmati dai presenti.. Il pubblico comincia a fremere e a chiamare a gran voce: Baccini, Baccini, Baccini. C’è già più gente e questo comincia a tranquillizzarmi. Arriva la band musicale. Sono i soliti cinque bravissimi musicisti che accompagnano da sempre il nostro Baccini. Il “Batteriologo” si erge in alto con i suoi tamburi e le sue grancasse, pronto a dare il la all’ingresso del Baccio. Eccolo qua il Nostro. Si capisce subito che è in gran forma. E’ vestito tutto di bianco, la camicia a maniche rigorosamente lunghe sbottonata sul petto che mette in risalto il medaglione dallo stile post-moderno. Saluta tutti con ripetuti inchini ed inizia con il primo brano: “Son resuscitato” ed è proprio così nella sua attuale vita artistica. Poi, poi, poi, va a ripetizione con la precisione di un mitra Stern: “Troppa birra nei bar” ( e anche nel mio stomaco), “Parole non ne ho”, “Troppa libertà”, accompagnato da Luca Volontà che suona il sax con la tecnica di un jazzista super raffinato, “Mani di forbice”, un classico del cinema che lui ha saputo renderlo vivo nella musica. E’ iniziato l’incanto e anche il pubblico ne è soggiogato. Con la coda dell’occhio noto un gruppo di giovani in prima fila che cantano a menadito tutte le canzoni del Baccio e, soprattutto, uno di loro, un biondo ossigenato con una mogliettina nera targata Honda, che si avvicina al palco aprendo le braccia come uno sparviero che si libra libero nell’aria. E’ uno spettacolo nello spettacolo che sta dimostrando il gran feeling che Baccini ha con il pubblico. Ad un certo punto Francesco, al piano, sembra fermarsi. Si tocca ripetutamente il braccio destro e si lamenta con i suoi: è stato punto dalle zanzare che questa sera, unitamente al caldo, rappresentano un valore aggiunto ma non gradito. Il teatro, adesso, è gremito e Berni lo rileva con la fotocamera, oltre a raccogliere precise istantanee su ogni stato emotivo del Baccio. La musica prosegue serrata: “Genoa blues” e il pubblico si scalda, “Sono zitello” altro riscaldamento, “Ho voglia d’innamorarmi”, introspezione e passione, “La notte non dormo mai”, con dedica ai topolardi del forum. Adesso è l’ora del raccoglimento alla memoria di De Andrè. “La ballata dell’amore cieco” sembra fatta apposta per ricordare un grande artista e così “La fermata degli amori”. Si cambia di nuovo e questo è una dote che pochi artisti hanno e Baccini con la sua poliedricità ne è l’esempio lampante: “Portugal”, esotico, “Margherita Baldacci” ironico e popolare, “Senza gravità”, da trasformare al più presto in un singolo. Il Baccio va che è una meraviglia. “Fotomodelle”, voce in falsetto e tanta ironia, “Andreotti” e chi se lo scorda un pezzo così, “Le donne di Modena” o di Padova? Qui ha una defaillance alla seconda strofa, si ferma, ride alla sua maniera e il pubblico si fa coinvolgere, ridendo e cantando insieme a lui. E adesso, silenzio: “In Fuga”. Gli occhi si chiudono e l’immagine di Pantani appare nitida: le sue vittorie, le sue grandi scalate e, purtroppo la sua morte assurda e tragica. Siamo alla fine di questa cavalcata estenuante ma c’è ancora da godere. “Generale”, diventa un grande coro che tutti cantano, “Sotto questo sole” ancora tutti insieme e poi, dopo essere stato chiamato più volte sul palco, chiude con la cover, “Minie the moocher”, ballata e urlata sotto il palco dai topolardi e non, come suggello di un abbraccio senza fine. Il palco adesso è vuoto, ma in molti rimaniamo nel parterre a raccogliere nella mente le emozioni che Francesco ci ha regalato.Siamo fuori nella calca e con la musica house ad offenderci le orecchie. Un unico aggettivo predomina: bello, sì è stato tutto bello.Stavamo sorseggiando una rinfrescante granita d’amarena quando ci avvertono che Baccini sta al tavolo della “Fondazione Pantani” ad autografare magliette, fotografie, C.D e a collaborare alla raccolta fondi per questa lodevole iniziativa. Nonostante la stanchezza che si fa sentire dopo uno spettacolo così impegnativo, Francesco è disponibile con chiunque gli si avvicina. Firma, parla, saluta, abbraccia tutti con calore. Baccini, è veramente stremato, adesso, rivolge agli astanti un sorriso di quelli buoni e scortato da guardia spalla improvvisati, si fa inghiottire da quel mare di folla senza volto. Anche tra noi topolardi cominciano i saluti. L’ora è tarda e per alcuni il viaggio di ritorno è lungo. Bernini, Sibilla e Iaia hanno il treno alle 6,30 e abbiamo deciso di aspettare l’alba insieme. Beviamo un caffè per rimanere svegli e dopo un po’ prendiamo anche noi il largo. All’ultima baracca una voce ci fa eco: “Ehi, Bernocci!” Berni sorride e dice; “questo è il capo”. Ci avviamo in direzione di quel richiamo e tra spintoni e scossoni riusciamo a raggiungere l’interno della baracca ristorante. Baccini è lì, dietro ad un tavolo di legno, che sta mangiando, sarebbe meglio dire annusando, un’anemica bistecca di non so quale animale, circondato dai suoi musicisti e dallo staff. “Che vuoi, Baffini?” gli fa il Berni. Veniamo a sapere che lo sfottò tra i due è iniziato il giorno prima alla FNAC di Milano e che prosegue questa sera per il divertimento di tutti. Francesco si sta riprendendo dalla faticaccia. Fuma una sigaretta dopo l’altra ed è di nuovo disponibile ad intessere discorsi di una certa rilevanza. Il soggetto è la musica e i suoi misteriosi anfratti per raggiungere il successo o cadere nell’insuccesso e nell’oblio. Anche la musica è un mondo fatto a scale: c’è chi scende e c’è chi sale. Noi gli raccomandiamo di continuare a salire senza sparire un’altra volta per 15 anni. Lui ci guarda e strizza gli occhi, dandoci la conferma diretta della sua volontà di rimanere ben piantato sulla cresta dell’onda. Intanto passa di lì un disk jokej del Parco, simpatico ma un po’ logorroico. Tra una ciarla e l’altra informa Francesco che la canzone in Fuga verrà “passata” dalla radio in cui lavora, GRP Piemonte, importante emittente regionale, quattro volte al giorno. La notizia ci dà nuovo brio per continuare la serata in allegria.Sono le quattro passate e stiamo ancora lì sotto la tettoia del ristorante. Francesco è sdraiato sul divano di color amaranto coccolato da Iaia. Arriva un tizio dell’organizzazione e senza mezzi termini rende noto che il Parco chiude e se vogliamo rimanere ancora lì, lui ci lascia dentro a far da guardia. A malavoglia ci alziamo dalle sedie e dai divani in cui siamo stravaccati, avviandoci stancamente verso l’uscita. Ci salutiamo ancora calorosamente con Francesco e con i topolardi nottambuli ancora rimasti. Il capo ci guarda con sovrana pietà e commiserazione poi sparisce inghiottito nei meandri delle baracche del Chico Mendez. Sono le 4,30 del mattino e l’alba sta premendo per uscire. Siamo gli ultimi avventori del parco, gli ultimi residui di una notte di magia musicale autentica. Craxi (ormai questo nome si è insinuato nel mio cervello e non riesce a dissiparsi ma lei, la Crazy autentica, è esattamente l’opposto di quel gaglioffo; basta osservarla per capire l’umiltà, la passione, la dedizione alla comune causa dei Topolardi), Sibilla, Iaia, Bernini ed io ci guardiamo un po’ spaesati. Si, è vero che siamo stanchi, sfiniti, brasati come l’arrosto in questo caldo infernale, ma speravamo che questa nottata diventasse infinita e, invece dobbiamo arrenderci all’inevitabilità di un nuovo giorno. Fatti pochi passi, Crazy ci saluta. La sua macchina rossa fiammante (o granata), è parcheggiata nei pressi delle baracche, mentre la mia è lontana, proprio all’inizio del parco: Dio, come la invidio. Ho i piedi in ebollizione, la testa pesante come un macigno e gli occhi che bruciano tanto sono arrossati. Ma tant’è, siamo in gioco e giochiamo fino all’ultimo sfinimento. Strada facendo, Iaia, ci delizia raccontandoci gli eventi di quella giornata che per lei diventerà parte della sua storia personale. Ha sostenuto, in questo stesso giorno, gli esami di 3° Media, presentando una tesina sul suo idolo che, manco a dirlo, è Francesco Baccini e, poi, è partita alla volta di Torino. Si è deliziata ad ascoltarlo dal vivo e si è ancor più deliziata a coccolarselo su quel lungo divano amaranto del bar. E’ felice, appagata e, oggi, non chiede di più dalla vita.Finalmente arriviamo alla macchina. Mai, come in questo momento, questo scafandro di lamiera, diventa un luogo d’assoluto benessere fisico: aria condizionata, morbidi sedili e, ovviamente, il caricatore di C.D. pieno della musica di Baccini. Non ci stanchiamo mai di ascoltarlo.La casualità vuole che s’inserisca “La notte non dormo mai” - “Ehi…ma guarda come è strana questa vita che ci ha fatto incontrare….” Che irresistibile moto di solidarietà totale nasce in noi quando ascoltiamo questi versi! Com’erano ispirati Francesco ed Enrico quando li hanno composti: si legge la loro vita, il loro travaglio, le loro pene e le loro speranze. Mentre Sibilla mi spiega la natura dei testi bacciniani non mi accorgo del sopraggiungere, sulla mia sinistra, del primo tram del mattino, o l’ultimo della notte? Per un pelo evito lo scontro diretto. Da qui capisco che la stanchezza ha avuto il sopravvento sulla mia volontà di resistere per non dimenticare. Con gli occhi che si chiudono e che cerco di tenere aperti con stiramenti facciali arriviamo a Porta Nuova. Con sorpresa scopriamo che, durante la notte, la stazione non è più la terra di nessuno. Così ci fermiamo ancora un po’ a fare ciance. Ricordiamo con gioia i topolardi del forum e ci convinciamo di far parte di una “associazione” che ha dell’unico, ed è ispirata da un uomo che con il suo naturale magnetismo ci affascina ogni giorno di più. Il cuore non può fare a meno di schierarsi irresistibilmente.E’ l’alba, ormai. Il sole non più forte di un lampo al magnesio comincia ad illuminare un nuovo giorno.

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