giovedì 9 marzo 2006

Sulfurea 3


Nel primo pomeriggio la piscina era pressoché deserta. C’era solo qualche esterno che, stanco del caos delle vicine spiagge tirreniche, preferiva la tranquillità di quell’oasi della salute. Mi accomodai sulla sdraia, nei pressi del palmizio e mi preparai a gustare la pennichella. La vidi arrivare mentre le palpebre si stavano chiudendo. “Devo dormire,” cercai d’impormi. Niente. La curiosità di vedere cosa avrebbe ancora combinato vinse sul sonno. Scrutava dall’alto sforzandosi di individuare il posto migliore dove sistemarsi. “Vuoi vedere che viene qui?” pensai. Discese la collinetta con il solito passo strascicante, si fermò ancora un istante e poi virò decisamente nella zona dov’ero sistemato. Per un motivo che non potei spiegarmi, serrai le palpebre facendo finta di dormire. Prese possesso dell’ombrellone vicino al mio, sistemò con cura l’asciugamano sul lettino di plastica, si tolse il pareo e si sdraiò, completamente riversa al sole. Indossava un altro costume da bagno ma, seppur di colore più gradevole, rispetto a quello del mattino, restava sempre di stile rigoroso. Dopo lunghi movimenti per cercare la posizione ideale, sembrò trovar pace. Il sole batteva impietoso e le cicale si facevano sentire. Trascorsero una quindicina di minuti e lei, stoicamente, resisteva, immobile, all’irradiare dei raggi solari. “Questa è incoscienza allo stato puro”, pensai. Dovevo fare qualcosa per dissuaderla e impedirle di prendere un’insolazione.
“Non devi stare troppo al sole il primo giorno”, dissi.
Spaventata, girò di colpo la testa e mi guardò stupita. “Dice a me, signore?”
E a chi, sennò. “Il sole bisogna prenderlo gradualmente. Tu, poi, hai la pelle molto chiara, ed è ancora più pericoloso”.
Lei, sorrise. Notai subito che si era tolta l’intricata macchinetta raddrizza denti.
“C’è poca ombra qui”, si lamentò. La invitai ad accomodarsi sotto il mio ombrellone.
“Grazie, signore!” disse timidamente, sedendosi sull’erba.
Mi stava dando fastidio essere chiamato signore e glie lo dissi.
“Come la devo chiamare, allora?” rispose, intimidita. “Io mi chiamo, Giancarlo e tu?”
Subì un attimo d’imbarazzo. “Io mi chiamo Dragana. Dragana Radulovic”.
Fui io, adesso, ad essere stupefatto. Le porsi la mano. “Piacere”. Aveva una mano lunga, ossuta, da pianista e il palmo caldo, quasi bruciante. “Sei straniera, allora? ”Non potevo essere più banale di così.
“Fino ad un anno fa, sì. Ora sono naturalizzata italiana. Il mio cognome, adesso, è Caputo, ma non ci tengo molto”. Mi guardò in modo fiero, gli occhi neri a brillare nel fulgore della luce.
“Quelli al tavolo sono i tuoi genitori?” domandai. “Diciamo di sì”, rispose in un soffio. “Come diciamo?” Sarà per deformazione professionale, ma la mia curiosità esigeva d’altri ragguagli.
Lei sembrò chiudersi in se stessa. Rannicchiò le gambe portandole verso il petto e ponendoci sopra la testa. “Lui”. Tossicchiò. “Lui, non è mio padre!”
Non notai del rancore nelle sue parole, solo una gran malinconia.
“Hai voglia di raccontare?” le suggerii.
“Beh, io, non so”.
Alla fine si convinse. Diede vita ad un’esposizione densa, lucida, senza tradire apparenti emozioni. Narrò della sua terra natale, la Serbia kosovara, del periodo buio e atroce imposto da una selvaggia e cruenta guerra civile che non distingueva amici e nemici, appartenenze religiose ed etnie. L’odio è il principale elemento di separazione tra i popoli e, se coltivato com’è avvenuto in Serbia e in Kosovo, non può che generare mostri. Per chi è spettatore della violenza stare da una parte e dall’altra è legittimo solo allo stadio e anche lì con molta cautela. – Un popolo inerme al massacro condotto,/ nessuno ha visto, nessuno ha parlato./ Cadaveri risorti dalla palude,/ orribili visi mostrati al sole,/ il dito puntato verso chi ha taciuto. Parlò del vero padre con un amore smisurato. Lo definì un indipendentista intransigente che donò la vita alla Patria e al Dio dei cristiani-ortodossi per difendere i suoi ideali e la sua famiglia. Disse della loro casa rasa al suolo, dell’esercito di mercenari che portavano solo violenza e odio, di donne e bambine straziate nelle carni, di cunicoli maleodoranti dove lei e la madre si rinchiusero per sfuggire dai crudeli artigli di quegli aguzzini. Poi, venne la salvezza, dopo un lungo peregrinare, tra campi minati e zone occupate da altre etnie. Ripararono in un campo profughi gestito da italiani. Per loro si prospettava un’estenuante attesa nelle improvvisate baracche di legno, tra il freddo e il fango, sotto un tempo inclemente che vomitava regolarmente acqua e neve, prima della pacificazione del territorio. Quel periodo non fu così lungo come si prospettava. Tra la madre e un ufficiale italiano che comandava quel campo profughi, nacque del tenero, non un vero amore, ma tanto bastava perché lui la convincesse a seguirlo in Italia. Si sposarono in una cittadina della Puglia, dove lui era di stanza e, in seguito fu destinato a Catania dove, in questo momento, risiedevano. Nonostante gli spostamenti del nuovo padre, riuscì a proseguire regolarmente gli studi e quest’anno si sarebbe iscritta al liceo della città etnea. Ascoltai, in estasi, quella triste storia, esposta con un preciso uso della lingua italiana, graffiata, qui e là, da un incidere ancora troppo freddo; solo per un attimo, sentii l’impulso d’intervenire e di chiarire. Sapevo di che cosa parlava, ma avevo la netta sensazione che non era disposta a raccontarmi altri particolari della sua personale storia.
“Ti trovi bene, in Italia?” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Ci pensò un po’ su prima di rispondere. “Meglio vivere nel certo che nell’incerto”.
Fu una risposta scontata, ovvia, però veniva da chi aveva visto e sopportato tante sofferenze ed era ampiamente giustificata. Dentro di me, adesso, si miscelavano molteplici sentimenti: ammirazione, solidarietà, tenerezza, inquietudine. Com’ero stato superficiale nel giudicare quella coraggiosa ragazza. Presi repentinamente la sua mano, volsi il palmo e lo baciai. Era sudaticcio e freddo.
Lei sgranò gli occhi. “Perché?” sussurrò.
Lasciai scivolare via la sua mano. “Scusami”, riuscii ancora a dire, vincendo l’angoscia che mi stava montando in gola.
Mi guardò con incredulità. “Di che cosa?”
Di essere un cretino, volevo risponderle. “Di averti trattato male, prima, nella vasca!” mi limitai a dirle. Lei sorrise e abbassò gli occhi.
“Me la sono meritata”!
Quelle parole erano di una modestia che le faceva onore. Da quel preciso momento ebbi la certezza di aver a che fare non con una ragazzina, ma con una donna matura e conscia di esserlo. Mi alzai dallo sdraio, portai le braccia in alto e le stirai con forza. Respirai a pieni polmoni quell’aria intrisa di zolfo in quel caldo meriggio di inizio Agosto. Mai, come adesso, sentivo, dentro di me l’estate: un calore nell’animo, una strana sensazione di novità, una voglia di scoperte, d’incontri. Ad un certo momento, dimenticando di essere in un luogo pubblico, mi misi a pensare a voce alta. Da ragazzo, nei momenti di particolare euforia, mi era capitato di mettermi a parlare da solo, tanto che le zie si erano spaventate e volevano chiamare un medico, ma riuscivo sempre a tranquillizzarle, dicendo che era uno scherzo. Ora mi sentivo di farlo liberamente senza paura di essere giudicato.
"Per prima cosa mi faccio un fango e una turbo doccia rigenerante, vieni anche tu?” La ragazza, senza sorprendersi di una domanda tanto estranea al contesto del discorso, prontamente rispose: "D’accordo" e, con quei suoi occhioni neri, sembrò evocare tutta la misteriosa bellezza della sua terra lontana e della gioia di vivere il presente.
“Allora, aspettami un minuto!” Le ordinai senza protervia.
Uscii di corsa dallo stabilimento e, dopo aver superato, con un po’ d’affanno, l’irta salita che portava alla zona alta delle terme, arrivai alla destinazione che mi ero prefisso. Entrai in un bazar dove, prevalentemente, vendevano articoli d’artigianato locale e chiesi di visionare dei costumi da bagno femminili. Lucia era una cliente affezionata e anche buon’amica della proprietaria. Vincenza, la titolare dell’emporio, per l’appunto, fece finta di non riconoscermi, forse le erano già giunte le voci della nostra separazione. Mai come nei luoghi di villeggiatura, le dicerie si susseguono e librano indisturbate nell’aria. Scelsi da un ampio campionario il costume che ritenevo adatto e dopo aver pagato un conto spropositato, una vendetta per solidarietà femminile, pensai, mi caracollai in direzione della piscina. Giunsi trafelato. Le porsi l’involucro. “Aprilo e dimmi se ti piace.”
Lei lo svolse con circospezione. “Perché lo hai comprato?” disse, reggendo in mano il bikini, alla maniera dei pescatori della domenica, quando catturano una preda non gradita.
“Non ti piace?” domandai. In me stava affiorando il dubbio di aver commesso una gaffe di proporzioni gigantesche.
“Non è questo!” replicò, con un‘espressione afflitta.
Il desiderio di sapere mi spinse a fare delle supposizioni.
“Hai paura di essere rimproverata da tua madre, per avere accettato un regalo da uno che conosci appena?”
Scosse ripetutamente il capo, smuovendo i capelli. “Mi sento come una che è stata risarcita da un danno subito”.
Abbassò la testa e aspettò l’inevitabile mia risposta che, in ogni caso, tardò ad arrivare. Accidenti, aveva colpito nel segno. Chi, da ora in poi, la trattava con superficialità o, peggio ancora, la guardava alla stregua di una profuga, avrebbe dovuto fare i conti con me.
“Si è vero. Era l’unica cosa, anche se stupida e banale, che mi sentivo e che potevo fare per te e, poi, il costume che indossi è poco adatto per i fanghi”. Alla fine sdrammatizzai ma, in me si manifestò la consapevolezza di non essere mai stato così sincero e spontaneo con nessuno.
“Grazie”, sussurrò. Sciolse i due pezzi, legati tra loro da una fibbia di plastica. “Dove mi posso cambiare?” Le indicai gli spogliatoi che si trovavano vicino alla piscina grande, al livello superiore rispetto al nostro.
“Mi sta bene?” chiese, con una punta di civetteria, appena mi si pose di fronte.
Non l’avevo sentita arrivare perché ero impegnato a mandare a memoria una poesia di Catullo di cui ricordavo solo il primo capoverso: Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore/ e il mormorio dei vecchi inaciditi/ consideriamolo un soldo bucato…
“Il giallo ti dona”, mi limitai a dirle. Come avrei voluto dire, invece, che la trovavo bella, impudica, seducente, ma non era possibile, lei non poteva essere per me. Nonostante l’emozione notai un piccola incisione bluastra, forse un tatuaggio, che adesso, risultava bel evidente sopra a quegli slip ridotti. Era a forma circolare, alla stregua di un timbro ministeriale e a suo modo aveva un’arcana eleganza.
Anche questa volta la mia curiosità ebbe il sopravvento. - Dove era andata a finire la proverbiale riservatezza piemontese? - Così, con una leggerezza che solo gli stolti posseggono, le domandai, forse con una punta di malizia, la natura di quel tatuaggio.
I suoi occhi diventeranno cupi. Si mise a fissare un punto qualsiasi del cielo e a sbuffare. “Ti prego”, disse, digrignando i denti, “che senso ha raccontarti il brutto della vita quando siamo sotto questo sole così bello?”
“Beh, si, hai ragione!”. Era una bugia ma l’avevo detta solo per paura di perdere il piacere della sua compagnia.
Lei, allora, rincuorata, si venne a sedere alla punta del mio sdraio. Con fare apparentemente studiato, portò le mani dietro la nuca e iniziò a sciogliersi la lunga treccia nera. Adesso i capelli le scendevano a ciocche zingaresche sulle spalle; le labbra erano esangui ma staccavano squillanti sull’incarnato rosso peperone.
“Se ti racconto della mia vita, prometti di non fare commenti?” disse.
Era seria e pacata: addirittura non osava guardarmi in faccia.
Scossi con energia, dall’alto in basso, la testa: dovevo avere un’aria ben intimorita se lei non esitò a credermi subito. “Vedi che avevo ragione che è meglio se guardiamo il sole?” Ma, alla fine, raccontò.
Quel marchio a fuoco che aveva impresso sotto l’ombelico, non era altro che un’altra infamia perpetrata da spietati scherani, che perseguivano la teoria della pulizia etnica con il terrore e la violenza fisica su donne, uomini e bambini. Era un bollo che significava possesso, una cosa già espletata e di cui gli altri dovevano essere messi a conoscenza. Arrivarono di notte nella casa isolata nel bosco: una casa nascosta che pareva sonnecchiare nel passato; erano in sei e, come si dice, armati e mascherati. Con l’inganno si fecero aprire la porta. Frugarono nei cassetti e s’impossessarono di quel poco che era rimasto, dopo tanti mesi di carestia. Occhi bramosi scrutarono le due donne e, altri, s’impegnarono a legare il padre e il fratellino, di un anno più giovane di lei, ai piedi di una credenza. Tre sulla madre, tre sulla bambina. Dragana, all’epoca, aveva undici anni! Vinsero agevolmente, ogni resistenza. Solo uno di loro si fece strappare, dalle forti mani contadine della madre, il cappuccio di lana dalla testa e questo, in seguito, gli fu fatale. Le lasciarono lì, sul freddo impiantito: le bocche spalancate dal dolore, le carni lacerate impresse dal loro marchio, e il sangue innocente che si spargeva a frotte. Uscirono, urlando frasi sconnesse, latrando come animali appagati e, portandosi appresso il fratellino. Ma se nel serpente il veleno è tra i denti, negli spietati è in tutto il corpo e il male per loro non ha mai fine. Cosparsero con la benzina delle fascine di legno e le gettarono dentro la casa. Come in un sabba diabolico aspettarono che il rogo si consumasse e solo quando si convinsero di non aver lasciato testimoni alla loro violenza, si allontanarono ghignando in cerca di nuove vittime sacrificali. Non fecero i conti con il desiderio di vita che aleggia in tutte le persone, che è più forte del dolore e della disperazione. Pur a fatica, la madre si trascinò sul pavimento e riuscì a slegare il marito. Questi, facendosi largo tra le fiamme che ormai divampavano in tutta la stanza, raccolse, come un pietoso fardello, la figlia e la trasportò nella cantina sottostante. Incurante del pericolo e delle suppliche della moglie, ritornò nell’infuocata stanza. Da un’apertura del muro, celata dalla credenza, estrasse un fucile: un vecchio Garand della seconda guerra mondiale, ottenuto da un baratto, un sistema di pagamento ancora in uso nelle regioni balcaniche. Assicuratosi di aver posto in salvo i suoi cari, partì per la sua missione disperata: trovare gli aguzzini e porre in salvo il figlio. Non ci mise molto a scovarli. Erano in una bettola a tracannare vodka: sicuri e tracotanti. Li guardò ad uno ad uno e quando scorse gli occhi da lupo e il naso adunco di quello, a cui la moglie aveva strappato il cappuccio, sparò su di lui, senza pensarci due volte. La lotta fu impari. Riuscì a ferirne mortalmente due, ma dovette soccombere al fuoco di fila degli altri, che gli impedirono di portare a termine la missione di salvataggio del figlio che da allora non si sa dov’è. Il suo corpo fu portato all’esterno e impiccato, a testa in giù, come i vili. Ma lui, era un eroe e, quelli, spregevoli carnefici.
“Meglio aver fatto la fine di mio padre, che vivere segnata”, disse, Dragana, alla fine di quel racconto-calvario.
Non seppi fare di meglio che coprirmi gli occhi con entrambi le mani, come un codardo che cerca di non vedere la realtà. Ero in preda al panico più totale. Lei invece era quasi raggiante forse perché e, forse, per la prima volta, si era liberata da un enorme peso. Mi guardava di sbieco, come fosse vittima di un improvviso attacco di strabismo, con un occhio fuori assetto che mi cercava senza trovarmi.
Le risposi con calma, cercando di misurare le parole. “Pensa che ce l’hai fatta, nonostante tutto. E, adesso, sei qui, consapevole del dolore ma anche della tua precoce maturità”.
Mi guardò in modo sciocco, come la più quieta delle adolescenti. “Bisogna che io stia sempre all’erta, che me ne stia quieta e che non mi faccia intrappolare dagli sguardi cattivi o accattivanti delle persone, altrimenti per me sarà la fine. Io, sono sola, in questa giungla di belve feroci”. Non afferrai completamente il senso di quelle parole. Qualcosa mi sfuggiva. Cosa voleva dire, ad esempio, essere sola? “Ci sono i tuoi. Non voglio dire il tuo patrigno, ma su tua madre ci puoi sempre contare, no?” Lei mi sorrise, con quella grande bocca piena di denti accavallati. “Mia madre, da quel giorno, è morta dentro! Vive in un’altra dimensione.”
Un lungo silenzio s’incuneò tra noi. Avevo delle sensazioni di freddo che mi attraversavano il corpo come scosse elettriche. Lei s’accorse delle mie precarie condizioni psicofisiche e strofinando le cosce sulla sdraia si avvicinò ancor di più a me. Sentii subito il profumo del suo corpo accaldato che mi sfiorava. “Ti sei spaventato del mio racconto?” mi sussurrò con una voce che pareva provenire dal sottobosco.
“Scossi la testa in un falso diniego”. Avrebbe potuto essere solo una semplice constatazione di un inequivocabile stato di fatto. Ma lei, per fortuna, sorrideva premendo tra i denti la sua aria adolescenziale, col naso appuntito, gli occhi increspati pur se languidi e comprensivi.
“Voglio che tu stia bene”, mi disse, mentre con le due mani mi scuoteva il capo.
Fui preso da un impulso che sulle prime non riuscii a controllare: appoggiai le mie mani sulle sue braccia e la tirai a me. Le nostre bocche ora erano vicine, troppo vicine e bastò un piccolo spostamento in basso del suo capo per unirle in un bacio furtivo sulle labbra. Dopo restammo per lungo tempo in silenzio: lei distesa accanto a me con gli occhi sbarrati e con la mano ad accarezzare il mio braccio, io che la sbirciavo facendo a gara con i miei sensi di colpa.
Da lontano si levò un grido: Dragana!
Lei si sollevò di colpo da quella posizione supina, prese uno degli asciugamani di spugna bianchi, quelli che le terme davano in dotazione agli ospiti, se lo cinse sui fianchi e rispose al richiamo.
“Vengo subito, mamma”.
Prima d’andarsene disse: “sai a che cosa pensavo mentre stavamo sdraiati?”
“No”.
“Beh”, sbiascicò, “forse è meglio che non te lo dica”.
Mi venne da ridere. “Sì”, risposi, “è meglio che tu non dica più niente”.
“Ciao, allora”.
“Ciao”.
Quella sera stessa, tornando a piedi verso il centro termale, dopo aver fatto una scorta di sigarette nell’unica tabaccheria del paese, confidai a Daniele quella storia, compresa quell’unica furtiva effusione. “Che ne pensi?” gli domandai.
D’un tratto lui si fermò. “Giancà” disse, “temo che tu ti sia fatto troppo coinvolgere in questo affare”. Non risposi: d’altronde che cosa avrei potuto rispondere? Che aveva ragione? Ci rimettemmo in marcia tacendo fino in prossimità dell’aiuola che divideva la strada dall’edificio alberghiero. Finché lui non ritenne di dover tornare nuovamente sull’argomento. “Veramente”, disse, “un modo per uscirne con dignità, senza causare danni a nessuno, ci sarebbe: vattene da qui prima che puoi!”
Lo strattonai per un braccio: così aspramente da sorprenderlo. “E credi che non ci abbia mai pensato?”
“Allora che aspetti a mettere in pratica i tuoi pensieri?”
“Ma quella ragazzina ha bisogno d’aiuto!” dissi, al colmo della disperazione.
Daniele mi guardò come un aguzzino guarda il condannato che deve giustiziare. “Vuoi aiutarla,eh? Vuoi darle una mano per uscire dai suoi guai? Vuoi essere paterno e caritatevole con lei? Giancà, sei un vergognoso bugiardo. Tu da quella vuoi una sola cosa, poche balle. Libero di prendere per i fondelli te stesso e qualcun altro ma non il sottoscritto”. Detto questo si allontanò come una furia lasciandomi solo ad ascoltare il canto delle cicale.
La sera stessa feci i bagagli, senza dare giustificazioni di sorta e senza salutare nessuno mi allontanai da quel luogo che per me era diventato minato.
Nei giorni seguenti mi mancò molto: mi ero così abituato a lei che mi sembrava impossibile non ascoltare più la sua fredda parlata slava. Però, questa volta, mi sentivo di aver fatto la cosa giusta, di non aver perso il treno delle occasioni, anzi, di averci guadagnato in umiltà e dignità.

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