sabato 25 marzo 2006

I Racconti di Petrus: IL DRAMMA DELL'IDENTITA'


PROLOGO

La sua casa era ancora immersa nel buio, le sette, forse le otto del mat­tino ma su ogni cosa regnava ancora padrone il silenzio.
Carla, vent'anni, due esili gambe, un corpo perfetto, amava dormire fino a tardi per lasciarsi trasportare da sogni dolcissimi. Aveva scelto quella che forse sarebbe stata la via più facile per di­ventare famosa:mostrare i suoi splendidi occhi di un verde irreale,il suo sorriso ingenuo,le sue tumide labbra. Il suo futuro era l'obiettivo di una macchina fotografica, l'artificiosità di una carriera da fotomodella. Già da bambina amava truccarsi e curare il suo abbigliamento, poi con gli anni ha sempre continuato ad ammirarsi, a vivere del suo stesso corpo ,a cercare giorno dopo giorno di migliorare il suo aspetto. Ha sempre conti­nuato a credere in se stessa, completati gli studi fu assunta come segreta­ria da un vecchio avvocato ma dopo un po' di tempo tracciò il suo avvenire: serate in discoteca, obiettivi puntati addosso, sguardi ambigui su di lei. La sua vita era sterilmente felice, l'essere soggiaceva completamente all' apparire, neanche più la fantasia aveva valore ma il viaggio era iniziato e non si sarebbe mai più fermata (anche se...).
Dalla sua memoria era già stata cancellata parte della sua adolescenza,for­se tutta,aveva dimenticato le sue amiche,il suo ragazzo ed addirittura da quasi un mese non aveva più notizie dei suoi genitori.
La tua bellezza è odio
sospetto di un amante
certezza di un'illusione.
Un rivolo di luce pervase, solo un tenuo riflesso si sparse sulla sua fronte. Le undici. In fretta indossò una tuta e fu subito pronta a scendere di casa per iniziare a correre. Alle mezza era nuovamente nella sua stanza, un colpo di telefono al suo fotografo, poi le stoviglie non ancora lavate dalla sera precedente, il tonno in scatola, un goccio di vino che allunga la vita per quanto ce ne sia bisogno.
I tuoi occhi brillano adesso
il tuo futuro è più chiaro
la tua strada l'ha segnata il tempo
le ore scolpiscono il tuo viaggio
ogni sentiero è sicuro
ma non è la luna ad illuminare la notte
aspettami, non mi dimenticare.
"Alza la testa, su sorridi, fantastica, fantastica, ancora un'altra, Carla". Ancora un'altra e Carla orgogliosa si voltava indietro, sorrideva, danza­va, si spogliava. Ancora un'altra e Carla era stesa su un letto,orfana della sua identità,non c'era più niente in lei,solo una foto da pubbli­care ed una bellezza da conservare impura ma intatta.
Cerca un
Aulico sogno che ti
Ristori non
Levare in cielo un grido di terrore
Ami il denaro ma sei sempre più sola.

Ormai era l'ora di tornare a casa, di dimenticare i flash e i miraggi e dormire per poi risvegliarsi travolta dai penetranti raggi di una primavera in fiore.

1° Movimento.
INCONTRO

Un giorno ti avrò
il tuo ricordo mi assale
ho avuto sempre e solo te, la memoria mi accoltella
e cerco un'altra donna,
il nostro tempo si rialzerà dalla polvere e da allora
di nuovo noi.

Quei versi sembravano lame taglienti che la inseguivano in ogni stanza per colpirla e farla soffrire, quella grafia minuta la conosceva da tempo ma mai avrebbe pensato che sarebbe diventata il suo tormento ed era spaventata da un’ombra covata nella sua intimità.
A risvegliarla dall'incubo uno squillo di telefono: "Senti Carla-esordì una voce rauca- ho assoluto bisogno di vederti".
I1 suo incubo adesso era diventato una voce e terroriz­zata interruppe la "conversazione". Ma squilli di frequenza regolare imperversavano come pioggia battente ed esausta rese muto quel dannato telefono e rimase assorta nel silenzio.
ore 16.00
Bussano alla porta.
Due occhi celesti negli occhi di Carla.
Istanti di angoscia, stupore.

Ingresso e dialogo
Tre volte lacrime.

"Non sono venuto qui per sapere se ti manco, iniziò lui, mentre i ricordi lampeggiavano impazziti nelle loro menti, ma voglio solo dirti che ti stai uccidendo". Un brivido...poi di nuovo lui. “Ormai non hai più desideri e neanche più una vita; ti bastava che io ti sorridessi per stare bene ma adesso il tuo unico amante è uno specchio, sei schiava di te stessa." Ancora un brivido... anco­ra lui: "Non ti è rimasto niente e della tua bellezza hai solo l'illusio­ne che sia eterna ma quando appassirà?". Aveva finito di parlare e si aspettava che Carla provasse a difendersi ma i suoi gesti erano spaventati e inerte si fece condurre davanti ad uno specchio.
Finalmente Carla trovò la forza di parlare(come se lo specchio riuscisse
a darle fiducia):"Smettila sei solo geloso,le ferite che porti sul
petto ti fanno ancora male e cerchi di rendermi partecipe del tuo dolo­
re ma io adesso ho una nuova vita e tanti nuovi amici"
"Quali amici?Quelli che ti scattano foto o quelli che ti portano a letto? Scusami ognuno fa entrambe le cose"
E anche se fosse?Tu non fai più parte della mia vita ed adesso finalmente sono libera."
"Si libera di odiarti, libera di farti del male, libera di non accorgerti di soffrire."
“La mia unica sofferenza è sentirti parlare, mi stai annoiando, è meglio che te ne vada”.
Ma era ancora lì,fermo a guardarla e dal silenzio emerse la sua dolcissima voce:
Ti prende, ti possiede, ti assale,
sfinito ti lascia perdere,
travaglia le notti
e penetra corazze,
entra nel tempo
e con esso distrugge le ore,
questo è amore
e la sagra delle tentazioni.
E’ questo che vuoi? Ricordare? Ed allora fallo,rovista nei cassetti e forse troverai un mio rossetto."
"Sei diventata stupidissima, neanche più le mie poesie riescono a farti riflettere?"
"Non voglio pensare a niente,voglio solo rimanere sola e non vederti più , capito?"
"Non capisci niente!"
"Chi è nel torto inizia ad offendere"
"Per offenderti basterebbe ricordare che fino a dieci anni fa avevi persino paura di uscire di casa e solo quando entrai nella tua vita, trovasti il coraggio di conoscere il mondo."
“Ero solo una bambina."
“ La verità è che avevi paura, proprio come adesso che ti ho vomitato addosso la realtà”.
Non sarebbe servito a niente parlare, era come quando litigavano e per giorni si rifiutava di parlargli finchè piangente ritornava da lui e lo abbracciava forte.

2° Movimento.
La verità nel pianto

Era sulla sedia, immobile davanti a tre o forse quattro specchi (non ne avrebbe mai ricordato il numero preciso) che la circondavano.
La aveva legata a quella sedia ed aveva lasciato il suo splendido corpo a marcire al buio. Carla pensava di essere vittima di un inutile e banale scherzo(la corda da cui era legata gli specchi,quello strano odore prove­niente dalla cucina)ma dopo un'ora la sua stanza era ancora trafitta dalla luce del crepuscolo frapposta al forte bagliore di una lampada al neon posta sopra gli specchi angoscianti. Carla iniziò a capire che non si trattava di uno scherzo,avrebbe voluto gridare ma era stordita dal perpetuo ripetersi della sua bellezza.
Dormì,solo poche ore per riposare,ma al risveglio..
"Aiuto che cos'è?Cosa?". Un mostro camminava davanti a lei, ma era immobile e fasullo, aveva due occhi verdi e capelli lunghissimi, non riusciva a capire cosa volesse ma era sicura che l'avrebbe torturata per tutto il suo"viaggio.
"Ho paura. "Il viso sanguina mi fa tanto male questo livido,non ricordo di essere cadu­ta,tutti soffrono,quella bambina che si affacciava dal molo ed invocava suo padre non corre più,è diventata una donna,ha tanti amici,tanti amanti,una vera donna non ha bisogno di un padre che la rimproveri,di una madre che le dia consigli,una vera donna vuole essere libera."
"Roberto!!Papàààààà"
Passi alle spalle ma in casa non c'era nessuno.
(estate 73) "Spinga,spinga,un ultimo sforzo ed anche questi occhi vedranno il mondo. E' nata,è bellissima."
Ma sarà stato veramente così? Oppure.
“Si muova ho un'altra paziente alla quale provvedere, non possiamo perdere tutto questo tempo solo per lei,ecco­la qui,Rina prendila in braccio e portala dalla madre ed invitala ad anda­re subito nella sua stanza,io intanto corro dalla signora Fumagalli, mi rag­giunga al più presto."
Il vento bussava alle sue finestre, l'unica coperta che aveva addosso era troppo leggera per coprirla ma ciò nonostante la opprimeva,la luce sembra­va aliena a quel mondo che aveva costruito senza neanche volerlo,all'improv­viso,come una tempesta estiva che irrompe nel cielo sereno e dopo un pò la­scia solo l'arcobaleno ad alimentare il suo ricordo.
Il suo viso stava perdendo colore,i suoi occhi si stavano spegnendo,avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma da per tutto vedeva guerrieri dalle spade dorate rincorrere donne sole,da per tutto sgorgavano lacrime. Carla rabbrividì,ogni minimo pensiero sembrava essere inutile,era come se anche le ultime forze stessero cedendo si stava lasciando andare.In fondo quando si è soli è più facile soccombore che combattere e Carla aveva il
solo desiderio di uscire incolume dal suo incubo ma ogni minuto che passava rendeva più aspra e remota la strada della libertà."Io cercavo una strada più sicura,cercavo un uomo,cercavo un amico,poi incontrai quel mondo fatato il mondo che ogni ragazza sogna ci entrai,ma adesso soffro e rivelo a questo specchio le mie angosce,mi sento inutile,confessare all'immotezza di questi oggetti le mie ansie è veramente assurdo,neanche nelle favole riuscirei ad essere credibile, sarei anche li un fantoccio preso e sbattuto dovunque ce ne fosse bisogno,un fantoccio pronto a soffrire nella speranza che il dena­ro lenisca il dolore."Alla mia morte cosa resterà di me?" I raggi del sole stavano insistendo sui vetri delle finestre,volevano ridare luce alla tetra casa di Carla ma lei era assente,era ancora persa nei suoi pensieri:"Ma sono donna,ho una mia identità,nessuna gelosia annienterà la mia bellezza,distruggerà le mie speranze,non sarò mai succube delle sue mi­nacce,non gliela darò vinta,al più presto vedrà che la più forte sono io, ho paura!!!!!!!!"
Dalla cucina provenivano dei rumori, Carla scorse il riflesso di un'ombra, una persona si aggirava nella sua casa ma lei non aveva il coraggio di chie­dere chi fosse e cosa volesse, stava soggiacendo ad una realtà che di vero non aveva niente,c'era solo una ragazza e le sue sofferenze a rendere quo­tidiano il suo dramma.
Come gli occhi silenti anche i rumori si spensero, era di nuovo notte o alme­no alla sua mente sembrava inutile pensare al sole, era meglio dormire e sperare che al risveglio la sua vita sarebbe tornata regolare.

Terzo movimento.
Ritorno alla vita

Fuori pioveva, la primavera sembrava essersi smarrita in quella fredda mat­tina di fine aprile,il vento bussava alle sue finestre ed invadente svegliò Carla dal suo lungo sonno. Tutto era rimasto uguale alla notte precedente, gli incomprensibili quadri appesi alla parete alla destra di Carla,il diva­no in pelle che,così circondata dagli specchi,non riusciva a scorgere,le rose da tempo appassite,i suoi pensieri sconnessi: "E tu dicevi: Alla gente non importa niente della mia vita/ se sono stanco,se sono solo/Sto piangendo ma nessuno lo sa/ nessuno mi conosce.. .ed anch'io fottuta egoista ti ho ab­bandonato, ti senti perso quando anche la persona a te più cara ti volta le spalle,ti fa pesare un piccolo errore,preme con forza nella tua ferita ed esamine ti lascia da solo,ed io col vento d'estate me ne andai e ti lasciai solo,Francesco perdonami!!!Non sono degna delle tue attenzioni,del tuo sin­cero e profondo amore,sono..."
"Voglio vivere però: non telefonare, non uscire con Marco,dovresti indossare il maglione di lana,questa sera restiamo a casa e vediamo insieme il docu­mentario sulla rivoluzione Cilena,ti odio!!"
Anche il vento si era posato dolcemente ed aveva lasciato la città nel più profondo silenzio,tutti muti,tutti assorti,anche la natura sembrava assiste­re inerme alla sofferenza di Carla, l'intera UMANITA'sembrava ridesse di lei, non potè far altro che ricordare: "Guardavo il fiume che lentamente si gon­fiava d'acqua,ero assorta nel sentire la pioggia riempire la città.
Affianco a me non c'era nessuno,non potrò mai dimenticare. Alle spalle improv­visamente sentii delle voci,venivano verso di me ma non volsi lo sguardo indietro, la gente è talmente piena di sè che nessun volto può dare amore, c'è solo ínvidia, gelosia ed io preferii guardare gli alberi, la riva incal­zata dall'acqua. All'improvviso sentii una mano sulla mia spalla, un tremore pervase tutto il mio corpo,mi invitarono ad andare con loro,iniziarono a parlarmi di morte,di spirito riecheggiato nel tempo,di notti insonni,di sal­ti nel vuoto.La loro stanza era buia e spoglia,avvolta ormai da una densa nube di fumo,da per tutto si respirava l'odore dell'alcool,ogni tratto di parete era occupato da manifesti, da policromatiche scritte inneggianti alla libertà. Non dimenticherò mai Antonio, il suo sguardo sereno nascondeva qual­cosa di più forte di una semplice anima persa nello sconforto della gente, pronunciò poche parole ma sempre lucide e pronte ad entrare indelebili nel mio cuore.
Cos'è il dolore,cos'è la morte,cosa la vita?
Tutti tacevano,lui mi prese per mano,un calore immenso mi attraversò,mi riportò al fiume,era notte fonda ormai ed anche la pioggia aveva deciso di tacere. Nessuna parola potrà mai cancellare quel silenzio.
A piene mani raccolse un sasso e lo scaraventò nell'acqua,inutile sprofon­dò senza mai più riemergere, poi raccolse un ramo,anch'esso finì nell'acqua ma galleggiò strafottente ed imperioso nella sua inconsistenza, era la nostra vita, il coraggio di sentirsi forti anche quando la debolezza sembra sopraf­farti,solo adesso l'ho capito, forse solo adesso mi rendo conto di cosa si­gnificasse quel bacio,le sue mani sulla mia pelle, il suo ADDIO.
"Poi te ne parlai, tu mi scambiasti per pazza,mi rimproverasti per aver be­vuto,non mi desti risposta,a cosa sei servito, cosa mi hai dato?"

Sentì la porta aprirsi lentamente, il suo film stava per giungere a lieta conclusione, lo vide avvicinarsi, posare dolcemente le sue labbra sulla sua fronte ma subito dopo si pentì,sciolse le corde e scappò via,
Carla era li­bera.

Chiusura

Tutto è finito. Un libro chiuso sulla scrivania, un portacenere pieno di
sigarette, un querulo lamento in questa mattina di primavera. Carla sta ri­cordando quei momenti,le sembra di vedere tutta la sua vita scorgere velo­cemente ma non come se fosse in un film, è qualcosa di più complesso,è co­me se la sua paura,o un'entità più grande,vigilasse sui suoi ricordi,fos­se costante spettatrice,e talvolta protagonista,della sua vita.
Carla non può far altro che guardarsi intorno, inerme osserva un altro gior­no morire, come le notti precedenti anche questa la trascorrerà insonne, giurando di ritornare a lavorare, di non pensare più a niente, di non pensare più a Francesco ed invece dopo un pò di tempo scopre il cielo di nuovo squarciato dai raggi del sole, sono passate otto, nove ore ma lei ha ancora davanti a i suoi occhi gli spietati specchi che riflettevano il suo volto, nervosamente si rigira nel letto e grida il suo nome ma non capisce se lo fa per disprezzo oppure per sentire al suo fianco la presenza di un uomo, un uomo che le ha dato dolore ma che nel suo cuore prova ancora un for­tissimo amore.
Scende dal letto
Adesso pensa che tutto debba finire, uno squillo e poi.."Grazie papà... TI VOGLIO BENE!!!!"
Epilogo esplicativo
Io stesso spesse volte mi sono chiesto chi fosse Francesco ed ho scoperto che ha 45 anni e che dieci anni prima “dell’avventura degli specchi" sposò Roberta, vedova di Filippo, vero padre di Carla. Da quel giorno le loro vite si incrociarono in un perfetto connubio di odio ed amore. Cinque anni dopo il loro matrimonio si interruppe bruscamente, Roberta scap­pò via con un ricco industriale e da allora solo Francesco si occupò di Carla, finché in una calda estate la portò via.
Del resto è ormai inutile parlare: Carla sinceramente ti vorrei conoscere.

I Racconti di Petrus: EMPATIA


PREFAZIONE

Potrebbe sembrare un artificio, un usurato luogo letterario, ma queste pagine sgorgano dinamiche dall'incapacità di tacere lo sgomento che mi colse. Sono un avvocato, di quelli giovani. di quelli fiduciosi nelle istituzioni.
Ma talvolta il giudizio è sommario, infallibile specchio della precarietà che rende claudicanti. Potevo proseguire indifferente a coltivare la mia tranquilla vita, un antico palazzo in centro, un podere rimodernato nella campagna umbra. Mario e Nadia trotterellavano felici, mi venne a cercare Trento.
Già il suo nome suonava diverso, fino a sfiorare le corde dell'ambiguità, iniziai a capire. Non mi sarebbe consentito, molteplici fattori potrebbero impedirmi di rendere pubblici i nostri dialoghi e le sue lettere, ma devo lasciare una testimonianza, nessuno avrà stima in me, la deontologia è un mero, obsoleto apparato teorico, devo. Riporto, nelle pagine seguenti, le sue confessioni (tralasciando i miei interventi e le lettere che avrei dovuto spedire, ma sono sprovviste del destinatario, tranne la missiva che apre questa testimonianza, indirizzata agli "amici", ed un' altra scarabocchiata su una pagina strappata da un libro di Dino Buzzati e destinata a Malo; ovviamente prive di recapito. Vi lascio qui.
P.S. Le lettere emergono dal contesto perchè virgolettate.
Anch'io rimasi stupefatto dalla sua cultura e dalla sua lucida follia.


TESTIMONIANZA
"C'era una campana nascosta da dedali rami, ma i suoi rintocchi erano ben vividi, ancora li sento addosso, come il torpore svellato all'improvviso, ne ricordo anche l'odore, il caffè bruciato dell'alba, l'epoca notturna delle tele trasognate, non c'è posto per le emozioni. Il fascino di quelle campane lottava fragorosamente contro il vigliacco moto delle mie intenzioni, avrei voluto scappare da quell'ennesima porzione di quotidianità, ma la campana è ancora qui, in QUESTA TESTA MALATA, senza effigie, di nessun padrone, soprattutto NON MIA. Nel sogno la fuga, perdonatemi, ma non bastava più."
Qui tutti cercano ostinati di provvedere a se stessi, io non me ne sono mai curato, i rari tentativi di rispettarmi erano goffe improwísazioni, ricercavo interessi che mi rendessero interessante, un lavoro, non lo facevo per me, volevo solo essere amato, ma non amavo me stesso, a che serviva allora. Mi contorcevo nel letto, mi alzavo di scatto, ho tanto sonno, anche adesso che dovrei darti una disamina lucida, lo so mi guardi compassionevole, è l'unico sentimento che sia mai riuscito a muovere, iniziai ad approfittarne, ancora vagavo, ma questa volta tra i portici lontano dalla campana, c'è il suono lì fuori, il rumore che mi dissero di cercare dentro, eppure leggevo, ma solo la città riuscì in un tale stordimento, di vuoto, di tasche che donano spiccioli, cambiai strategia. Cercavo donne sole e vecchi, di quei vecchi rimbecilliti che si ostinano a campare, li affrontavo insistendo per mille lire, sbucavo all'improvviso, ritorcevo il mio corpo addosso al loro, li impaurivo con lo sguardo e la voce deformata, imparai il linguaggio della strada. Coni' è ? Osceno, squallido, infarcito di urla e forme sincopate, indossavo una maschera per acquisire maggiore padronanza, un nuovo nascondiglio, in fondo la gente vuole solo FUGGIRE ! Mi inseguono, sono arrivati fino al tuo studio, come chi? Sono loro, gli spettri, come fai a non sentirli? Sono abnormi nei loro volti convessi, il loro stridore rinnova la cecità, ti rifugi negandoti alle loro facce cattive, ma ormai sei anche tu nelle loro mire, bisbigliano, bisbigliano sempre. " Tutto quello che fu tra noi adesso non conta, intanto continuano a ripulire le strade da tutti gli immigrati e i tossici, a me non danno fastidio, anzi il saperli sempre lì mi rassicura, non mi sento mai solo, da quando sei andata via ho pianto, mi sono spezzato uscendo dalla cornice( ricordi la Pittalo? ), ma non ho scoperto la verità. Il vero è sempre annebbiato dalle percezioni umane, continue metamorfosi, e intanto sotto casa continuano a spacciare."
Volete che mi perdonino? Non invoco la loro clemenza, evitare il carcere? Vent'anni, trenta? Sono abituato alla prigionia, quando mi trasferii in città affittai con i suoi soldi un attico, spropositamente affacciato sul boulevard meglio tenuto, e più ipocrita: cinquecento metri e un'enorme cerniera stretta da un filatterio di cemento inorridisce al sole, gli escrementi giocano con i bambini, comunque la mobilia del mio appartamento era di legno pregiato e breitschwanz florido ornava i miei ospiti vanesi. La mia casa era ipocrita come il modo di provvedere a me stesso. Era la mia prigione eccelsa, adesso il salto è l'opacità delle pareti e il russare di Saka, i libri condividono le mie passioni: adulare me stesso, mistificare l'ignoto ascetico. Queste nuove sbarre ridimensionano solo il lato estetico.
A proposito, tua moglie ti ama? Male, si divertirà a soffocarti, riuscirà a sopravvivere alla polvere e al dolore sostituendo tua madre nelle linee perniciose del possesso, il silenzio, soffocherà la rivolta, in fieri potresti essere libero ma gli anni ti porteranno la solitudine, mai solo come Ebe. Non mi interrompere, non ti interessa? Della giustizia ne parleremo un altro giorno, seguimi, i soldi li avrai ugualmente. "Ho il sospetto che tutto passi. Anche l'ardore di questi giorni, sono inverosimilmente felice, ho ricominciato a lavorare a quel romanzo che intrapresi per anestetizzare il diavolo, purtroppo non sono il Maestro e nemmeno un suo adepto fedele, la mia incostanza è comunque vitalità, spero che la noia tardi ad arrivare, non mi sento di questa gente, sono così ostili, freddi, mi manca il sud, ricordi il nostro primo viaggio? L'arsura abbacinante era "memore dei percorsi umani", ci tuffammo in quella enorme fontana a forma di stella, credevamo di non far niente di male, ma accorsero subito vigili e una volante della polizia e ti ricordi i numeri della multa? Pensandoci mi rituffo in una vergogna avvilente, ma si strinsero attorno a noi aiutandoci a rivestirci, tanti omini che si interessarono a me. Le loro misere case vibrano di grazia e livore, non vogliono cedere, mentre qui tutti si sono arresi, il solo scopo è accumulare."
"Amare vuol dire morire. Addio"
" Ho incontrato il maestro, il demone ci tenta, sarebbe meglio ripresentarsi all'obitorio, qualcuno potrebbe assomigliarci. '
"E' questa la tua filantropia, ridermi addosso? Maddalena si è sposata, cosa avrei dovuto fare? Le ho regalato il vestito, lo rifarei, ma tu mi sputi i tuoi principi, contrassi il debito dell'aiuto, ti credevo un amico, quanto meno un essere tollerante, non accetto più la tua presenza e la tua querula voce, prendi quello che ti serve e sparisci per sempre. Seguirò il Maestro con maggiore abnegazione, ho creduto in te, Malo.
Ogni tanto mi accarezzava, ma era un gretto pretesto per criticarmi:-Tutto questo grasso oltraggia la tua età-,-Quando imparerai a prendere cura di stesso.- Anche tua moglie farà così, inizialmente sarà docile preda, poi pian piano invaderà il tuo spazio, tutto sarà condiviso, quello che desideravi? Tutto sarà condiviso, ma giostrato dalle sue abili movenze, non avrai non avrai. Comprai un tostapane, credevo che oltre la tostatura ci fosse un po' di refrigerio almeno per il prosciutto che poi scivola in bocca, sopravvissero solo le briciole carbonizzate e nel tempo avrebbero cambiato stagione, qui è tutto asettico, vorrei piangere, ma sono un assassino e tutti penserebbero che voglia elemosinare pietà.
Ho letto le tue ultime elegie, SPARATI. Sui fiori che gelavano si pose il mio orgoglio, sei caduta in basso, per chi hai sacrificato la tua vis polemica`?" Come se tutto fosse immobile, quel giorno, uno dei tanti, la notte nemica del sonno. Non ho più remore. Ecco tutto. Tutto d'un fiato. Il 6 ottobre, notte primaverile, fredda per le ferite del corpo e per la devastazione del campo un tempo fertile. In principio era con lei, un'amica, credo Rosa.. poi, dopo aver costeggiato la Pinacoteca, rimase sola ad attraversare il mercato vecchio. Guardare, guardare. troppe volte le ho consigliato di guardarsi intorno, mi avvicinai, 1' amore non conosceva argini, "Ancora tu", ancora tu mi disse, sono forse un cane, il volto emaciato, non chiedo avanzi alla tua oltraggiosa mensa, vorrei solo parlarti. VATTENE VATTENE. Non doveva trattarmi così, si cela alla luce la periferia, avevo bisogno di lei. "Ernesto è tuo padre, l'argomento è chiuso." Cosa vuoi mi importasse di Ernesto, ma lei puntualizzò che Ernesto la risollevava dal dolore, cosa che a me non riusciva, Ernesto aveva una posizione, era stimato.
Io sono un randagio. Piangevo, tremavo e lei mi sputò addosso la sua indifferenza. E ora vola, vola inerte come le giacenze di un magazzino. "Come la convincesti a farti entrare?" (scusate l'intromissione, ma mi è sembrato necessario rendere nota almeno questa domanda per agevolarvi)
( La sua risposta ) La strada era buia. fin troppo assolata di rabbia, però, la rassegnazione grazia il tenente che altrimenti sarebbe stato sgozzato, tu mi vuoi bene? Almeno tu, ti chiedo aiuto, uccidimi, ho fallito, anche nel delitto, avrei dovuto impiegato più colpi, i suoi occhi lentamente soffocare, l'agonia lenta avrebbe tracciato il solco tra lei e il mondo, CRUDELE, invece in un solo colpo è morta. Sparare alla testa! La cosa più idiota che abbia fatto dopo gli esami di maturità, portai greco e storia, mi spaccai in due intromettendomi nel loro meccanismo rituale e poi tutto si esaurì in dieci minuti di banalità, anche la morte è banale, credevo rappresentasse l'acme della gravità e invece è un rapido buco istituzionalizzato, il decorrere tra stato e non stato. Il nulla.
"Canta la sirena,
l'espiazione del male la porto dentro,
un volto mi condannò".

venerdì 24 marzo 2006

I RACCONTI DI PETRUS: "ENO"



PRIMA VOLTA
Ci conoscemmo in agosto, l'aria era immobile, l'arsura vivida in qualsiasi punto della città, il lungo viale alberato giaceva impercettibile sotto i raggi del sole che alteravano le forme; ingurgitavo polvere.
Bagliori tracciavano sfumature nel silenzio disorientante della stagione. Certo non attendevo volti da rubare, ero stregato, propriamente caduto in un incosciente tremore di estasi, in un luogo mai apparso come in quei GIORNI
Tutto rifuggiva alle mie certezze precostituite.
"Sei di qui?"
Sei di qui! In una mattina arsa di agosto ....
Cosa ci farei`? Qui!
Un turista? Un incolto turista confuso nelle ingerenze di una città che fu capitale.
Non posso che appartenere a questa gente, essere scia dell'odore alacre del grano, nello scirocco che investe le strade della mediocrità delle case, piccoli abituri carichi di altri respiri, stentati uomini come me, non ricattai il padre e la madre.
Ma non siamo i soli.


INSIDIO’ IL MIO PRESUNTO POTERE
Nonostante quell'insensato approccio, iniziammo a frequentarci, vociferando parchi, lungo le strade segmentate; è irrespirabile l'afa, tagliente, inquietante. Avevamo sempre lo stesso modo di procedere, lui davanti a me ed io come se mi affannassi costantemente a rincorrere.
GELO: gli ottocenteschi palazzi, stretti intorno alla "mia" piazza, IMPROVVISAMENTE DISTANTI, ma per anni ne accusai il fascino, le volte della chiesa a proteggermi dal clangore dei ritardi, a rigenerare nella ressa degli albanesi, uomini per ore stipati, come carne da macello, in tuguri di latta e il mare storpio di notte, visi endemici nello stordimento affratellante, e poi finalmente la libertà: uomini stipati, come carne marcita, in tende e containers freddi, irreali, la sete ne amplificava la solitudine.
Forse un giorno, tornare
"Mó, mò, tenete la susta, signò", non potevo dargli torto, ma ridevano, ridevano bambini in un campo di sudore, mentre io "Eno" nell'inquietudine di giorni qualunque; ciò che creai non era la verità.
La mosca è attanagliata dal pregiudizio
Omar mi ripeteva che i luoghi sono pura ricerca di appagamento, si percorrono determinate strade per rimandarsi all'infanzia, ci spingemmo giù fino all'arco Contini. Rimasi a lungo a fissare una finestra, inventai le stanze, l'odore di orzo perlato, voci .. d'intorno era deserto, si intravedeva un pezzo di cielo,
minimo, come tanti altri, in decadenza, era sempre estate Baleni di caldo
precipitavano sul tufo in abbandono, c'è ancora speranza; che le case che gli uomini.......... RISORGANO.
Omar sognava, non chiedeva clemenza o fama, non classificava gli altri; "Non esistono categorie stabili e gerarchizzate, pesa ogni pulsione umana, le impercettibili differenze", ripeteva di rimando da uno dei suoi libri preziosi".

IN CATTEDRALE E NEI SUOI DINTORNI
"Madre del cielo, Madre riportami mio figlio, proteggici o Beata", un po' sorridevo di quelle donne, a volte mi rasserenavano e sorridevo di me stesso, io RACCOLTO IN PREGHIERA!
Istintivamente mi soffermavo su quella Madonna negata agli sguardi umani, ritornavo alla premonizione: "Non sarete mai più soli", la vita! Vita brulicante in strade ricurve dirette al pantano.
"E' questa la forza di questa città", sussurrai ad Omar strisciato alle mie spalle, "riversarsi in strada a venerare un volto solo immaginato, invocarlo, credere nella sua presenza, non profilarsi colori, lineamenti, credere, credere a dei veli demiurghi di forze, con abnegazione".
"Credere", mi rispose, "credere è avere parte della vita in salvo, protetta, significante, comunque scusami il ritardo, ma sai, il traffico".
"Non ti preoccupare", il traffico il dieci agosto? Solo un piano glabro ed inclinato, ma conoscevo l'imbarazzo nel confessare il lavoro nei campi. Uscendo dal Duomo mi riassalì l'emozione, raccolsi a pieni sguardi le movenze architettoniche, i fregi vagamente boriosi," Ut videat et videahir", e giunsi all'essenziale, superba piazza barocca alle nostre spalle. Omar ruppe il silenzio: " Il tuo volto impazza nel rossore.''
"E' solo il caldo, questa insostenibile afa", temevo la profondità delle sue riflessioni.
Insisteva: "Secondo me c'è dell'altro, sei coinvolto patologicamente", "Patologicamente?"
"Con il cuore."
"Certo!", non lo corressi, i rari stravolgimenti di significato erano le uniche licenze a una lingua completamente sua, era umano! Non accettava discorsi non conclusi: "Sei attratto da queste strade, dall'odore che solo chi ama può sentire."
"Sono bruciato dal sole", dovevo pur difendermi, "niente altro.' `Tu .......... Ami queste pietre più degli uomini.`
Nudità
"Sveli in questo intrecciarsii di vicoli e cortili una forza, un dare estraneo all'uomo, il fascino dell'immoto e il silenzio, quel silenzio che troppe volte è ignoranza, ottusa o spaventata omertà, qui è MOVIMENTO, forme si legano a forme, illuminano."
Le sue intuizioni e il lessico, inconsueto anche per molti italiani (forse la laurea in un paese straniero è vera intellettuale conquista), mi relegarono in disparte, inoffensivo. "Sei coinvolto come me quando torno alla mia terra, alzo le braccia, respiro, non cerco, amo, mi limito ad amare, in una ostinata difesa perché quella contemplazione sia solo mia."
"Basta", irruppi frastornato," è insostenibile che voi altri dobbiate cercare in ogni gesto un retroterra, un osservare consapevole, mai distratto. Qui dell'arte nessuno se ne fotte, noi mangiamo, ci riuniamo sotto il Duomo, è vero, ma solo. per riempire le nostre avide bocche, cibo arabo, siciliano, barese; l'importante è appagarsi, e, ovviamente, partecipare. Devi farti vedere, essere drasticamente in forma, curare la tua aria insofferente come fosse un bel vestito." "Eno, non posso credere sia solo questo."
" Presto anche tu dirai che vorresti andare a vivere a Bologna, perché lì è tutta un'altra cosa'"
Ci salutammo con due schiaffi leggeri sul viso.

TESTIMONIANZA
Verso la metà del mese il caldo firmò una tregua e i nostri incontri si intensificarono sin dal mattino. Volle andare in chiesa, nei nostri templi, ascoltare ciò che resta della nostra religione.
Ci spingemmo "extra moenia" (nel rigore dell'annientamento), superate le cappelle, strisciammo lungo la parete destra, alzammo gli occhi: endiadi evocative di mistiche ascese, su tela, il rito era ampiamente iniziato.
Il predicatore era un'usuale mesta figura, ripeteva monodico il cerimoniale, la voce rauca inciampava nelle parole, in quarant'anni non aver assimilato quelle spicciole preghiere ! Si accese, improvvisamente, ci fissò. ``Le pecore possono dirsi tali solo perché nell'attaccamento d'amore, dimenticando il resto del mon­do, seguono quel pastore che è un tutt'uno con il Padre, con un abbandono che è l'immediatezza fisica e cieca dell'istinto. L'istinto", proseguendo con tono divulgativo, marginalizzando le voci esterne, "l'istinto è la fede, per credere bisogna amare, per caso signore voi amate filosofeggiando, annotando con furtivo cinismo ogni dono, pesando i baci e le carezze? No, care signore, voi amate impulsivamente, senza controllo, ma tra di noi, proprio qui, c'è chi osa osteggiare l'assolutezza dell'amore, in un ordine digradante di scherno, evoca un altro credo danzando intorno al fuoco, vestendo penne istrioniche, inneggiando al sole, alla pioggia", i bantu dell'ottocento? Il suo sguardo insisteva su di noi, "il Dio è uno, puro nel suo candore, una buona volta interrompiamo questi processi, aiutiamolo a scendere definitivamente dal Golgota, uniamoci attorno alla sua beatitudine; l'uomo ha un dio o è dio in quanto tale? Il dio è solo quello che amate? Queste sono le loro domande, vi oltraggiano, così inginocchiati, umili che rubano il lavoro ai vostri figli", la panca, scabra intensificava l'imbarazzo, le gambe, l'esiguità dello spazio e della mente altrui, la vista divergeva dal circostante, annichiliva le percezioni fisiche, il cielo al suolo, desertificato sin dentro le radici, l'azzurro schiacciato dai nostri movimenti, un uomo provava a sorridermi, ma le ferite lampeggiavano emanando ululatii fino allora sommessi, scosse il capo come se sonagli lo affrancassero dalla quiete, invero solo silenzio, il calvario inconscio, mi rivolsi ad Ornar ipotizzandolo sconcertato.
Era sereno, impeccabile nella camicia azzurrina, sul braccio destro l'eroe inciso riverberava con prepotente vanità la ricca luce, il profumo, le mie gambe tremebonde, Omar immobile, certamente vivo, ogni tanto gli vibravano le dita, intanto il prete continuava a parlare: ``Io mi chiamo Antonio, tra di voi ci sarà una Rosa, Carmela, una Maria, nomi comprensibili, di pace, e loro? Abdul, Nabil, Nabil? Esprimono qualcosa? Non certo l'amore per il Signore, la riconoscenza alla Madre, l'invocazione dei Santi protettori, i nostri eroi hanno portato corone e indossato sai pervasi d'amore, non hanno le loro facce nostalgiche, lamentano solitudine, alienazione.... e allora tornatevene alle vostre case, ma li non hanno lavoro, i vostri figli invece."
Sono un vigliacco, dovrei difendere Omar, far tacere l'ignominia", imperversava: " Mi raccomando, però, non odiateli, l'indulgenza è nella nostra indole, sono uomini, ma il Signore stenterebbe a crederci, sentite: l'altro giorno in circolare uno di loro mi ha spinto selvaggiamente per occupare il posto, ho cercato di farmelo cedere, ma il suo sguardo era pieno di cattiveria e perversione, sicuramente era senza biglietto, mancano i soldi e intanto avete visto tutte le bottiglie di birra sparse nel piazzale qui dietro? I vostri figli rispettano questi abiti, loro invece si rifiutano di ascoltare, non capiscono che i miei sono rimproveri fraterni, anche voi provateli ad accoglierli nella vostra misericordiosa pietà", scappai trascinandomi dietro Omar. Lontani dalla chiesa lo investii:" Hai sentito che ha detto quello stronzo?
E tu immobile mentre affermava che voi altri sconvolgete l'ordine prestabilito, offendete, rubate, neri di merda!" "Ascolta" mi sussurrò, lo interruppi immediatamente: "Sii reale immediato, niente pattume retorico, altrimenti..." "Non credo di meritare le urla, comunque per accontentarti: quell'uomo è il nulla."
"Finalmente!"
"E' il nulla perché nulla di ciò che mi ha detto mi ha ferito; giunsi qui con pochi bagagli"
"La solita poesia dell'immigrato."
"Ambivo a conoscere Firenze", forse non mi aveva sentito, "le città barocche, le metropoli sconfinate e ricche, mi ritrovai solo, passeggiavo nell'atrio di una stazione abbandonata, mi abbruttivo nel grigiore rancido di quel paese ignoto a televisioni e libri d'arte, mi spegnevo nella volgarità di gente sola e tanti bianchi che si ingigantivano davanti a donne e amici, spendili per un panino, se li butti in sigarette o altro me li restituisci, non era amore, non mi odiavano comunque. Spregiare il parroco, sarebbe appiattire il pulsare contagioso, le difformità, allora perché non annullare il nostro io, loro li sprezziamo ricchi, altri sempliciotti borghesi, tu sei "Eno", anche noi siamo il nulla, costretti in un gioco; crediamo che la vita sia qualcosa, che nasconda un segreto e non c'è niente. Assolutamente niente."
L'immensa luna ci scoprì vicini, fui attratto dalle sue labbra, lievemente arginate dalle guance, mi allontanai, non dissi nulla.

CONFIDENZA
"Io avrei voluto amare, ho cercato per molto tempo una donna, ho trovato il vuoto, si presentavano solo occasioni da nascondere alla dignità, mi battevo per vivere lucidamente il dolore, ma l'amaro bruciava lancinante, a volte fa ancora male."
Omar trascinava le parole titubante, riprese:" Vivo l'amore dentro"
" Inizi con la tua prosaica malinconia? "
" Vivo l'amore dentro, se vuoi interrompermi fallo pure, ecco mia moglie, ecco mia madre." Guardavo con ripetitivo fervore le due fotografie, le sovrapposi, le capovolsi, ma i due volti erano identici. "Mio padre si improvvisò cacciatore per sopravvivere, la natura serba in sé un volto più feroce, non perdona, ed io da primogenito presi in mano la famiglia, sposaii mia madre."
"Cosa hai fatto?"
"Ho sposato la moglie di mio padre, mia madre, la mia matrigna." Perché?"
"Per fare una cosa diversa! Cosa pensi? Non chiudere gli occhi, percepiresti solo i colori visti in precedenza, non credere che esistano solo i comportamenti che ritieni istituzionalizzati, c'è dell'altro. Ho sposato mia madre per salvare l'unità del lignaggio, come lo definiscono i vostri dotti antropologi, la corporazione di quelle tribù dalle penne istrioniche e dal fisico indistruttibile, sin dalla nascita annusiamo la ritualità, luna dopo luna, forse a placare la miseria.
Non ho voglia di fare l'amore, mi parli di ricerca, di affinità, sono qui anche per questo, non devo fargli mancare niente, Pablo ha sempre sonno, calpesta sabbia correndo leggero, a volte mi manca la loro luce, devo costringermi all'amore, ma per fortuna sono qui, in fuga, ma non dissimulo, provo a sognare, affiorano solo i pochi volti cari, i luoghi vitali, sogno solo ciò che ebbi. Poco a dire il vero. Ma questo fu tracciato per me."
Il mondo dorme chiuso all'amore.

Ora
Io che per anni presunsi la mia diversità .
Quelle foto…..qui a portata di mano
ora che è lontano
AIUTAMI
devo strapparle.






















lunedì 13 marzo 2006

Lettera di mio figlio ad un suo amico svantaggiato.


Ciao, Gian Marco.

Mi ricordo dello scorso mag­gio, quando un "vento nuovo" mi portò dagli amici di "A.B.C." (As­sociazione Bambini Cerebrolesi), un'associazione che ha lo scopo di aiutate persone troppo sfortunate perchè sorridano alla vita. Io non sapevo, allora, se avrei avuto la for­za di aiutare bambini disabili a cam­minare e ad esprimersi; non sapevo se sarei stato in grado, con una realtà diversa dalla mia, di continuare ad essere me stesso...
Penso a quando, per la prima volta, mi proposero di recarmi a casa tua: mi spaventarono a tutta prima le parole che descrivevano i tuoi ge­nitori come persone pedanti, accu­satrici, pronte solo a criticare; mi creavi perplessità e... timori tu, bambino che io non avevo mai visto, solo per aver sentito dire che da poco eri affidato alle "nostre" cure e, come tale, non pronto ad impegnarti a collaborare per migliorare gradual­mente la tua crescita, imparando pian pianino a muoverti ed a giocare come tanti àItri tuoi coetanei.
Avevo, si, incontrato altri mi­nori "bisognosi" di noi; mi ero, si, immedesimato con le loro esigenze, nei loro affanni; ma... con te mi pa­reva di assumere... un compito troppo gravoso e rischioso; non mi fidavo più delle mie "risorse".
Quando venni da te, con una speranza avvolta da "fili di timore", ebbi paura di rendere ancora più scettica la tua famiglia, con qualche mio sbaglio, di aggravare le ansie dei tuoi genitori, di indurli a credere che la mia non era la "scelta giusta". Poi, come d'incanto, i miei occhi si posarono su di te e... sparirono gli affanni, le incertezze; la nebbia si dileguò e, nel mio cuore, all'im­provviso... tu!
Il primo giorno, invero, fu dif­ficile: avevi appena iniziato il meto­do "DOMAN" (del medico america­no che ne era l'ideatore), adottato dalla nostra associazione, e (com'era ovvio) trovavi arduo muoverti, sol­lecitato da noi ad obbedire a "gesti" dettati dal nostro tirocinio; però, col tempo, le cose sarebbero migliorate (non è vero?).
Ho ancora nella mente la "se­conda volta" a casa tua: fui accolto dal tuo sorriso e quel tuo semplice invito, strano a dirsi, è "entrato" in me, nei miei giorni, nei miei "segre­ti": ho capito che ti fidavi di me, come intuendo che mi saresti stato vicino, fin anche nei momenti più difficili. Da quel giorno abbiamo "lavorato" bene insieme.
Purtroppo ci sono momenti impegnativi, periodi nei quali ogni sforzo sembra vano; ma, poi, ti vedo camminare carponi con più sicurez­za rispetto al passato; ti vedo felice di stare con me; e tutto ritorna chiaro. A loro volta i tuoi genitori si dimo­strano convinti di tale scelta e mi infondono fiducia: mi aiutano, quando non riesco a farti muovere, quando le tue gambe s'irrigidiscono ed io hopaura di farti male.
Si, lo so, c'è ancora l'incer­tezza nel mio "guidarti", sebbene tu non accusi dolore; ma io spero fer­mamente che tu, perseverando nel­1'Accettare il mio aiuto, mi darai la forza per "andare avanti". I1 quattro ottobre p.v., tuo compleanno, ti au­guro possa segnare sensibili pro­gressi sulla via della riabilitazione; spero, anzi, vivamente che in avve­nire tu possa sentirti ben ripagato di questi tuoi sforzi e, senz'altro, feli­ce.
Intanto ti saluto, con la certez­za di avere un buon amico.
Ciao, Gian Marco.

giovedì 9 marzo 2006

Sulfurea 1


Arriva con il vento, mi sgrana gli occhi addosso e si accomoda sotto l’ombrellone vicino al mio. Si vede subito, dal suo sguardo timido e incerto, che è la prima volta che frequenta la piscina termale. Di lì a poco, come sospettavo, alla luce delle mie ripetute frequentazioni di questo posto, mi chiede qual è il sistema migliore per aver accesso alle prestazioni e ai servizi che il complesso termale offre ai suoi clienti. Si è soliti credere che il modo migliore per conoscere le cose sia evitarle, non chiamare l'amico che ti svelerebbe l'esito della partita, non ascoltare il telegiornale, lasciare che il tutto si consumi da sé. E invece qui, quasi tutti, diventano curiosi. Giungono baldanzosi, felici di essere a contatto con la natura, poi si fanno prendere dall’ansia quando si trovano di fronte ai forsennati meccanismi tecnologici che espellono ettolitri d’acqua sulfurea. Sentendosi spiazzati, chiedono ragguagli in merito. Alcuni si accontentano di sapere solo l’aspetto burocratico e finanziario della cosa, altri, invece, esigono spiegazioni più precise sulla qualità delle acque e sui loro effetti benefici. E’ in questi casi che in genere si scatena la mia fantasia, ed è proprio questa che utilizzo con la nuova ospite. Le racconto dei prodigiosi risultati che si possono ottenere con il turbo massaggio, dei vantaggi sulla psiche se ci s’immerge nel caldo crogiuolo della vasca sulfurea e della sublime qualità dei fanghi cosparsi sul corpo all’aria aperta. Mi guarda con stupore, il naso arricciato nella smorfia ai margini tra sorriso e fastidio. Il confine tra realtà e menzogna, é molto stretto, ed io non l’ho valicato, mi sono limitato a dilatare un po’ le cose per produrre sconcerto. Lo faccio con tutti e anche questa volta non mi tiro indietro. Potevo farlo perché mi trovavo davanti ad una ragazzina intimorita ma, a volte, l’istrione che é in me mi vietava di fare distinzioni d’età e facilitare le ansie altrui. In fondo, come dicono gli attori consumati, la platea è vasta ed eterogenea. Lei gira su se stessa, raccoglie da terra la sacca rossa di plastica che contiene i teli di spugna e, senza salutare si avvia, strascicando i piedi nudi, lungo la stradina in doghe di legno d’acero che conduce alle vasche. “Una mocciosa maleducata”, l’etichettai. Quanti anni poteva avere? Tredici, quattordici, forse quindici, più in là, onestamente non si poteva andare. Era la sua altezza che faceva sballare le lancette della temporalità. Ben di rado, nelle nostre latitudini mediterranee, si vedevano adolescenti così sviluppate: gambe interminabili, ben tornite, che sorreggevano un corpo sodo che solo sui fianchi, leggermente adiposi, manifestava il non completo sviluppo della sua figura. Una faccia da schiaffi, dominata da una bocca larga e asimmetrica che, quando sorrideva, mostrava un ghigno beffardo e una massa di capelli corvini che scendevano fluenti sulle spalle. Non era una bellezza che colpiva al primo sguardo ma aveva un qualcosa d’indefinibile, d’insolito, che la rendeva interessante, quasi conturbante. In ogni modo, rimaneva una ragazzina, pertanto ogni fantasia, ogni pensiero su di lei era da scartare sul nascere; con la coda dell’occhio, noto che si porta nei pressi dell’isola circolare, dov’è installato il punto di raccolta dei tagliandi, per le prestazioni balneo-sanitarie e di smistamento alle vasche, dei clienti. Lì dominava, da sempre, o almeno da quando io venivo qui, la figura di Mario, l’assistente termale: un ragazzone di trenta anni, aitante e con muscoli rassodati in palestra, perennemente abbronzato. La sua bontà e generosità erano note a tutti i vecchi frequentatori delle terme, che potevano sempre contare su di lui per ogni necessità. C’era solo una cosa che lo faceva andare in bestia: chiamarlo bagnino. “Meglio che mi dicano cornuto piuttosto di bagnino”, confidava agli intimi. E, adesso, dalla sua faccia ancora più nera del solito, sembrava che qualcuno l’avesse proprio apostrofato in quel modo. Non poteva che essere stata quella ragazzina, infatti, era l’unica persona che sostava davanti alla reception. Sorrisi e mi sollevai dallo sdraio. Adesso era il momento buono per fare due cose: salutarlo, oggi era il mio primo giorno di terapia, e tentare di sdrammatizzare la situazione. Ci abbracciammo con il solito calore, nonostante fosse passato un anno. “Che deficiente quella lì”, esordì, ad alta voce.
Mi voltai di colpo per timore che l’insulto fosse giunto alle orecchie della giovane ma quella, intanto, si era tuffata nella piscina sollevando nubi di schiuma sulfurea. “Tutte qua vengono!” disse ancora, additandola, con rabbia.
Aveva ragione, questa volta, ad adirarsi: nelle piscine non è, in genere, permesso tuffarsi e particolarmente in quelle sulfuree come questa dove, una goccia di zolfo, spruzzata violentemente nelle pupille, può riservare spiacevoli conseguenze alla vista. “Ne abbiamo visti tanti in questi anni comportarsi così, porta pazienza”, gli dissi, per consolarlo.
Il suo volto sembrò rasserenarsi, ma le parole che seguirono furono ancora pungenti: “Basta vedere il costume da bagno che indossa per classificarla come una zoticona”. Anche questo, purtroppo, era vero. Infatti, portava un due pezzi alla “bulgara”, con gli slip a vita alta e il reggiseno avvolgente, che cosa, poi, doveva avvolgere? Il colore principale era imprecisato, perché soffocato da una tramatura infinita d’improbabili fiori giallastri.
“Non è il caso di infierire. Non ti pare, Mario?”
Scosse ripetutamente la testa facendo scivolare indietro i capelli che, a differenza dei miei erano ancora copiosi. “Beh, e Lucia non è scesa in piscina?” mi domandò.
La sua sana curiosità fu appagata solo da una labile ed evasiva risposta: “Non è venuta quest’anno”. Adesso non avevo voglia di spiegargli come tra me e Lucia fosse caduto il silenzio. C’erano stati, nei sette anni di convivenza, momenti d’incomprensione che traevano origine dalla mia rabbia del vivere correttamente il quotidiano e dall’insoddisfazione, da parte sua, di non coronare con il matrimonio una storia che si protraeva da qualche tempo ma, alla fine, lei aveva deciso di staccare la spina. Lei romana de Roma, io piemontese di Vercelli. Ero venuto nella capitale col proposito di inserirmi nel mondo della critica, del giornalismo e, magari, della televisione. Purtroppo, lo scarto tra desideri e realtà che, nei sogni di un giovane laureato in lettere, s’era configurato come un sentiero agevole da percorrere con letizia da parte di chi crede di avere capacità e vocazione, si era, invece, nell’urbe, rivelato una scarpata impervia, popolata da falchi famelici, come quelli che, una volta, si libravano sulle risaie e delle cui malefatte ancora i vecchi cacciatori raccontavano davanti a una bottiglia di Gattinara. Così, dopo una serie di tentativi in quelle direzioni, ripiegai sull’idea dell’insegnamento nelle scuole dello Stato. Ma, lo Stato, i concorsi non li bandiva e io, nella lunga attesa, era costretto ad arrangiarmi con le lezioni private di latino e con qualche tesi di laurea. A Vercelli, però, non sarei tornato! Certo la porta di casa delle mie zie, che si sono prese cura di me fin dagli undici anni, per la fatica di sopravvivere dei miei genitori, era sempre aperta, anzi sarebbero state felici, le vecchiette, di tener ancora vicino il nipote, tanto affettuoso, tanto giudizioso; ma io, mai e poi mai, avrei mostrato le mie ferite alla malignità degli amici che erano rimasti, attaccati come le ventose dei polipi, in quella piccola città di provincia. Tra i quali peraltro, circolavano notizie mirabili sui miei successi romani. Non le avevo diffuse io quelle notizie: s’erano diffuse da sole e, nel diffondersi, s’erano trasformate. Mi ero semplicemente limitato a dire d’aver fatto domande, d’aver inoltrato istanze, di poter contare su qualche appoggio autorevole, di avere buone speranze, buone probabilità… niente di più. No, non sarei tornato! Era meglio stare dov’ero. E poi e poi, nella grande città, l’incontro decisivo, quello che ti cambia una vita, può sempre avverarsi… Le speranze, si sa, sono recidive, come i vizi. Insomma, con questa fiammella, riposta in quella zona dell’anima neutrale, che gli psicologi chiamano preconscio, tiravo avanti una vita angusta, e ristretta anche dal punto di vista topologico. Abitavo, infatti, una stanzetta, tre metri per tre, presso un’affittacamere avara e accidiosa fino al grottesco, che si faceva chiamare signorina Betty, ma che, dentro di me, appellavo come Miss Mortiria. Quando Enrico, un mio amico liceale, che per mestiere faceva il rappresentante sindacale dei giovani studenti, mi offrì, su un piatto d’argento, un lavoro nell’ufficio stampa del più importante sindacato italiano, con un contratto duraturo e un compenso sicuro, che debordava dai contenitori dei miei sogni più chimerici, mancò poco che non mi mettessi a saltare come il ballerino Roberto Bolle, mio corregionale, e a fare meglio di lui le piroette. Trovai una casa in affitto più degna e più ampia, in un grande condominio della prima periferia romana. Poi venne Lucia come una leggera nuvola d’Agosto che non provocava danni. Non fu una passione che mi sconvolse, solo un amorazzo che doveva durare poche notti e che, invece, si mantenne in piedi, tra alti e bassi, per sette anni. La crisi di rigetto di Lucia avvenne a febbraio. Eravamo in cucina a consumare la colazione del mattino. Stavo leggendo la rassegna stampa dei quotidiani, appena scaricati da Internet, quando lei, abbassandomi violentemente un foglio, disse: “Io ti lascio!” Sulle prime stentai a crederci. Pensai ad un suo attimo di stanchezza, alla difficoltà di trovare un posto di lavoro stabile, o alla mancanza di un figlio ( n’avevamo parlato tante volte, senza mai trovare il coraggio di metterlo realmente in cantiere). Dal suo sguardo glaciale capii che questa volta poteva fare sul serio. “Perché?” fu l’unica cosa che fui in grado di dirle. “Non mi dai più entusiasmo!” mi rispose con eguale glacialità. Si allontanò dirigendosi verso il bagno. Quando uscii la salutai da dietro la porta e lei rispose al mio saluto. “Le è già passata”, pensai. Alla sera, al mio rientro in casa, non la trovai più. Di lei non c’era più niente: i suoi vestiti, il necessaire, i libri della Allende, i centrini della nonna, le saliere artistiche, il quadro firmato, ereditato da uno zio e altre cose, tutto sparito, svanito nel nulla. Dopo qualche giorno ricevetti una sua telefonata: “Sono viva, ma per te è come fossi morta, dimenticami!” Non fu facile dimenticarla. Dopo sette anni di convivenza rimangono delle tracce, dei gesti, delle parole, dei momenti di passione e dei momenti di noia che non si possono resettare. Poco prima di venire alle terme, la vidi in un supermercato della capitale. Stava facendo la coda ad una cassa. Non era sola. Con lei c’era un uomo massiccio, alquanto attempato. Rimasi ad osservarla nascosto dietro uno scaffale di prodotti intimi. Pareva serena, i capelli biondi pettinati con un taglio nuovo, le unghie laccate, come mai prima, le labbra ben marcate da un rossetto cremisi. Il conto fu pagato dall’uomo e dal gesto intuì che ormai quei due erano una coppia consolidata. In quel momento, chissà perché, mi venne in mente una citazione di Cicerone: “Habet enim praeteriti doloris secura recordiato delectationem”. - procura piacere il ricordo sereno di un dolore passato - . Non mi sentivo tradito né, tanto meno offeso, anzi, vederla così tranquillizzata attenuava i miei sensi di colpa nei suoi confronti.
“Signore, ehi, signore”. Mi girai di scatto in direzione della voce. La ragazzina era appoggiata con la testa ai bordi della piscina d’acqua tiepida.
“Dici a me?” domandai, sorpreso.
Lei mi guardò sorridendo, mostrando una dentatura avviluppata da un intrico di fili metallici grigiastri, che prima non avevo notato. “Si, si, proprio a lei”.
Per fortuna, che, almeno, non usava il voi, ancora molto frequente nel Sud.
“Che c’è?” risposi, cercando di apparire il più rilassato possibile.
“Per caso ho lasciato i miei sandali vicino al suo ombrellone?”
Risi di gusto al sentire quella domanda e riuscii a smettere solo quando mi accorsi del suo sconcerto. “Io non li ho visti, ma posso affermare che hai raggiunto le vasche a piedi nudi. Adesso non so dire se i sandali li hai dimenticati a casa o meno”. Mi resi subito conto di essere andato sul pesante, tentai di porre in qualche modo rimedio alla gaffe ma lei si staccò dal bordo vasca, immergendosi subito. Fu verso mezzogiorno che decisi che era giunto il tempo di “saggiare” l’acqua sulfurea. Scelsi, come sempre, la vasca dell’idromassaggio dolce, molto calda, per poi passare, dopo molto tempo, nella vasca a temperatura più mite. Il sole d’Agosto martellava come un instancabile fabbro e quell’acqua così fresca riservava un piacere senza pari. Assunsi una posizione dorsale a pelo d’acqua, protendendo la faccia verso il sole. Finii quasi per addormentarmi quando fui destato di soprassalto da uno schizzo killer che, di filato, raggiunse la cavità dell’occhio destro. Vuoi l’imprevedibilità, vuoi la paura, per il bulbo oculare sensibilizzato da una recidivante congiuntivite e, il passaggio tra la ragione e la rabbia furono questione di attimi.
“Ma chi è quel cretino?” urlai.
Si levò una vocina che, ahimè, avevo già sentito.
“Non l’ho fatto apposta, signore. Io stavo solo nuotando.”
Dio, non avesse mai usato quell’ultimo termine. Vincendo il bruciore agli occhi, sbraitai. “Ma lo sai che in questa piscina termale è vietato nuotare. Se lo vuoi fare, vai al mare, oppure vai al diavolo che forse è meglio per tutti”.
Non la vidi uscire perché ero troppo impegnato a proteggermi l’occhio danneggiato. In seguito, mi riferirono, d’averla vista piangere.

Sulfurea 2


L’ora di pranzo rappresentava per gli ospiti del Grand’Hotel un rito. Anche se, adesso, in verità, questo culto si era alquanto ridimensionato lasciando il campo all’improvvisazione degli ospiti e del personale di servizio. L’invasione dei “mutualizzati” aveva portato nuovo benessere all’azienda termale ma, di conseguenza, aveva abbassato la qualità e il prestigio della ricettività. Quello che prima era considerato il fiore all’occhiello degli Hotel calabresi, ora era diventato un convitto nazionale come ospitalità e una mensa aziendale come ristorazione. Era una citazione cara al mio amico Daniele, condivisa dalla moglie Dina, i DaDi li avevo denominati, assimilandoli in un tutto uno, romani di residenza ma apolidi come culture. Con loro c’era un’amicizia che durava da un quinquennio e che andava di là degli incontri annuali alle terme. Ci sentivamo spesso e ci vedevamo ogni qualvolta si presentava l’occasione giusta: un onomastico, un compleanno, la nascita di un loro nipotino o solo per il desiderio di vederci. Della mia storia erano gli unici a sapere tutto e questo la diceva lunga, in rapporto con il mio carattere chiuso e diffidente. Ovviamente, ero ospite al loro tavolo. Avevano già iniziato a pranzare, conoscendo bene il mio difficile rapporto con la puntualità.
“Già al lavoro?”, esordii.
Dina mi stampò uno dei suoi sorrisi maliziosi mentre, Daniele, alzò gli occhi al soffitto.
“E’ pronto a sparare una delle sue dotte latinate”, pensai.
E così avvenne: “Usus efficacissimus rerum omnium’magister”. Mi guardò con un’espressione furba e aspettò, come spesso faceva, la mia traduzione.
Questa volta mi era andata di lusso. “L’abitudine è il miglior maestro di tutte le cose. Va bene sapientone?”.
Scosse la testa. “Quasi. Non hai citato l’autore, però?”
Buttai un nome. “Erasmo da Rotterdam, forse?”
Le sue pupille lampeggiarono. “Molto prima”.
Era un gioco tra noi e ci piaceva giocarlo fino in fondo. “Plinio?” sussurrai.
“Vecchio o giovane?” insistette.
“Ma, direi vecchio, perché il giovane non era così profondo”.
Fu un altro azzardo e lui lo rilevò prontamente. ”Hai tirato ad indovinare, però hai avuto fortuna, con la C maiuscola”.
Mi guardai attorno. “Come mai ci hanno sistemato da questa parte? domandai.
“Hanno voluto separare i soliti dagli insoliti”, rispose Dina, indaffarata a tagliare un pezzo di carne piuttosto dura, domandandosi se era colpa del coltello, della carne congelata o della sua mancanza di forza fisica.
Eh si, aveva ragione: tutte facce conosciute davanti a noi. Guardando bene sembrava un disegno preordinato. Una perfetta scacchiera umana ma senza pedoni. Sul mio lato sinistro era schierata l’intellighencja calabrese: un professore universitario molto acuto e un po’ misantropo, in compagnia dell’anziana madre, piccolina come uno scricciolo, ricordava un uccelletto un po' spennacchiato, con i suoi pochi capelli grigi che le svolazzavano sul capo e gli occhi vispi come grani di pepe; poco più avanti, un guardingo e silenzioso magistrato, dall’espressione triste ma non troppo severa. In cinque anni di conoscenza posso dire di averlo sentito raramente parlare. La moglie gli assomigliava nei tratti allampanati e nella presenza austera. E poi, a completare la triade dell’intelletto socio-giuridico, c’era un avvocato, anch’egli calabrese dall’altezza smisurata e dalla voce burbera. Pur vestendo abiti adeguati alla stagione, pareva sempre in uniforme, per la solennità del suo incedere. Coltivava l’hobby della letteratura; raccontava con un tratto leggero ma incisivo una storia dimenticata, d’eroi dimenticati, di una guerra dimenticata. La sua compagna apparteneva ad una famiglia d’antiche tradizioni socialiste che aveva espresso un parlamentare la cui notorietà valicava i limiti territoriali. Si vedeva che era fiera del fratello ma evitava, credo per modestia, di parlare di lui. Sul lato destro era disposta l’imprenditorialità e la borghesia meridionale: Pino, il cioccolataio, la cui fortuna era partita dalla raccolta dei fichi e dall’idea, a quel tempo rivoluzionaria, di essiccarli e rivestirli di cioccolata. Da quando lo conoscevo, indossava sempre il solito vestito stazzonato e calzava un curioso cappellino da baseball, dov’era disegnata una foglia di marijuana e la scritta Jamaica for Bob Marley. “Il mio è il cioccolato più buono del mondo”, sosteneva, con enfasi. Sulle prime pareva una boutade, una dilatazione della realtà che qualche volta i vecchi amano glorificare poi, si è saputo, che l’esportazione delle sue dolcezze arrivava in ogni angolo del mondo e sulle tavole di famosi personaggi che fanno il mondo. Il suo rapporto sessantennale con la moglie Marì, che nonostante gli acciacchi dell’età e un passo claudicante si ostinava a prodursi in romantici balli latini era, a dir poco, controverso. A tavola, non scambiavano parola e quando lui ordinava i caffè non si dimenticava mai di suggerire al barman di aggiungere in quello della consorte la cicuta. "Buonasera cavaliere", lo salutai un giorno. "Di più", mi rispose, appuntendo gli occhi. "Allora buonasera commendatore", gli faccio. "Così va meglio, ma è preferibile che mi chiami Pino Cioccolataio tutto attaccato, perchè mi riconosco meglio con il nome e il cognome. Sono legato a lui, a questo uomo del sud montuoso che si è inventato il suo Eden di ricchezza dai più umili prodotti della terra, da un sentimento di grande tenerezza per via della sua stravaganza che si manifestava anche nelle cose più semplici come, ad esempio, la teatralità nel fumare: la sigaretta faceva un giro di 180° prima di raggiungere le sue labbra. Nel tavolo vicino al loro sedevano le Bluebell, così le chiamavano i ragazzacci, vale a dire, Daniele ed io. Due donne, la cui pervicacia nel difendere la perduta bellezza, rasentava, a volte, il grottesco e, in perfetta solitudine, un’ossuta avvocatessa lombarda che eguagliava di gran lunga i miei ritardi. Le sue entrate a fine pranzo erano diventate proverbiali. “Senta lei, cosa ha mangiato oggi?” m’apostrofava, con un finto tono autoritario, appena arrivava al mio tavolo. Ascoltava con attenzione, fissandomi da dietro i suoi spessi occhiali da miope, la lista dei piatti poi, ordinava sempre il solito: una minestrina vegetale e carne ai ferri con insalata di pomodori. Al centro di quella manica erano allineati gli alti gradi dell’esercito: un generale pilota, da poco in pensione, con la moglie, che ancora si doveva riprendere dalle paure che il marito le riservava quando doveva collaudare nuovi aerei; un giovane colonnello medico, anche lui in compagnia della consorte, una massiccia biondina dai piedi sempre gonfi. Non si capiva perché venissero alle terme, poiché non utilizzavano né i servizi, né le prestazioni sanitarie. Amavano il mare e ogni mattina prendevano la navetta che li portava in spiaggia. Alla fine della giornata si presentavano stracotti. “Che faticaccia!” erano soliti dire. Daniele li guardava con i suoi occhietti puntiti e poi tirava fuori del cilindro uno dei suoi motti latini: “Quidquid conaris, quo pervenias, cogites” – In ogni iniziativa pensa bene a dove vuoi arrivare. –
Tra i tanti soliti, c’era un tavolo di “insoliti”, composto di tre persone. Un uomo dalla presenza statica. Sul suo volto troneggiavano dei lunghi baffi neri a manubrio, sicuramente demodé; una donna florida dalle guance colorite, due occhi celestoni che fissavano seri e guardinghi tutti gli ospiti, come se avesse timore di chissà che cosa e una ragazza, di cui riuscivo a vedere solo la schiena nuda, attraversata da una lunga treccia nera legata con un elastico rosso. La presenza di quest’ultima, mi retrocedeva dalla classifica del più giovane in sala. Il salone si stava rapidamente svuotando. Anche i DaDi si erano alzati, stufi di contemplare come mangiavo. “Ti aspetto fuori”, disse Daniele, ridendo. Per i romani d’oggi, questa locuzione, rappresentava una sorta di minaccia all’incolumità personale mentre, per lui, non era altro che un tiro a salve, sparato unicamente per solleticare simpatia.
“Quest’anno ho portato io le carte da canasta”, s’intromise la moglie.
Già la canasta! Maledetta canasta! Non era altro che un andito dei passi perduti, delle ore rubate al sole e al sonno, un vero tormentone estivo da cui, però, non ci si poteva tirare indietro. “Abbi pietà, Dina. Almeno il primo giorno lasciami respirare”. Cercavo in tutti i modi di trovare un alito di comprensione.
“Vabbè, come vuoi! Se preferisci bruciare al sole la tua pelle d’asino, fai pure”.
Non si era affatto offesa del mio rifiuto. Lei aveva così tante frecce nel suo arco che, certamente, sarebbe riuscita ad affollare il tavolo verde con altri personaggi ben più qualificati di me.
Ero arrivato al dessert quando notai delle figure passarmi accanto. Alzai gli occhi e incrociai lo sguardo della ragazza con la treccia. Sulle prime non la identificai, ma fu questione di un attimo: era il Gianburrasca che aveva rovinato la mia mattinata in piscina.
“Buon giorno, signore”, disse.
“Giorno”, farfugliai, colto alla sprovvista. La guardai di straforo mentre si allontanava: alta, magra con una minigonna bianca di stile sportivo dalla vita così corta da lasciarle completamente fuori il costato, lo sguardo deciso reso conturbante da leggere sottolineature di matita nera e, ai piedi, calzava delle scarpette rosse con i tacchi che la rendevano più slanciata di quanto già fosse e molto meno infantile. Bella era bella, ma rimaneva pur sempre una bambina anche se dal suo abbigliamento si poteva pensare che aveva voglia di lasciare al più presto quell’età. Nello stesso tempo però sapevo che l’avrei ancora guardata con interesse perché non si sfugge alle proprie vocazioni. E ogni successivo sguardo, sapevo anche questo, sarebbe stato più triste del precedente.”

Sulfurea 3


Nel primo pomeriggio la piscina era pressoché deserta. C’era solo qualche esterno che, stanco del caos delle vicine spiagge tirreniche, preferiva la tranquillità di quell’oasi della salute. Mi accomodai sulla sdraia, nei pressi del palmizio e mi preparai a gustare la pennichella. La vidi arrivare mentre le palpebre si stavano chiudendo. “Devo dormire,” cercai d’impormi. Niente. La curiosità di vedere cosa avrebbe ancora combinato vinse sul sonno. Scrutava dall’alto sforzandosi di individuare il posto migliore dove sistemarsi. “Vuoi vedere che viene qui?” pensai. Discese la collinetta con il solito passo strascicante, si fermò ancora un istante e poi virò decisamente nella zona dov’ero sistemato. Per un motivo che non potei spiegarmi, serrai le palpebre facendo finta di dormire. Prese possesso dell’ombrellone vicino al mio, sistemò con cura l’asciugamano sul lettino di plastica, si tolse il pareo e si sdraiò, completamente riversa al sole. Indossava un altro costume da bagno ma, seppur di colore più gradevole, rispetto a quello del mattino, restava sempre di stile rigoroso. Dopo lunghi movimenti per cercare la posizione ideale, sembrò trovar pace. Il sole batteva impietoso e le cicale si facevano sentire. Trascorsero una quindicina di minuti e lei, stoicamente, resisteva, immobile, all’irradiare dei raggi solari. “Questa è incoscienza allo stato puro”, pensai. Dovevo fare qualcosa per dissuaderla e impedirle di prendere un’insolazione.
“Non devi stare troppo al sole il primo giorno”, dissi.
Spaventata, girò di colpo la testa e mi guardò stupita. “Dice a me, signore?”
E a chi, sennò. “Il sole bisogna prenderlo gradualmente. Tu, poi, hai la pelle molto chiara, ed è ancora più pericoloso”.
Lei, sorrise. Notai subito che si era tolta l’intricata macchinetta raddrizza denti.
“C’è poca ombra qui”, si lamentò. La invitai ad accomodarsi sotto il mio ombrellone.
“Grazie, signore!” disse timidamente, sedendosi sull’erba.
Mi stava dando fastidio essere chiamato signore e glie lo dissi.
“Come la devo chiamare, allora?” rispose, intimidita. “Io mi chiamo, Giancarlo e tu?”
Subì un attimo d’imbarazzo. “Io mi chiamo Dragana. Dragana Radulovic”.
Fui io, adesso, ad essere stupefatto. Le porsi la mano. “Piacere”. Aveva una mano lunga, ossuta, da pianista e il palmo caldo, quasi bruciante. “Sei straniera, allora? ”Non potevo essere più banale di così.
“Fino ad un anno fa, sì. Ora sono naturalizzata italiana. Il mio cognome, adesso, è Caputo, ma non ci tengo molto”. Mi guardò in modo fiero, gli occhi neri a brillare nel fulgore della luce.
“Quelli al tavolo sono i tuoi genitori?” domandai. “Diciamo di sì”, rispose in un soffio. “Come diciamo?” Sarà per deformazione professionale, ma la mia curiosità esigeva d’altri ragguagli.
Lei sembrò chiudersi in se stessa. Rannicchiò le gambe portandole verso il petto e ponendoci sopra la testa. “Lui”. Tossicchiò. “Lui, non è mio padre!”
Non notai del rancore nelle sue parole, solo una gran malinconia.
“Hai voglia di raccontare?” le suggerii.
“Beh, io, non so”.
Alla fine si convinse. Diede vita ad un’esposizione densa, lucida, senza tradire apparenti emozioni. Narrò della sua terra natale, la Serbia kosovara, del periodo buio e atroce imposto da una selvaggia e cruenta guerra civile che non distingueva amici e nemici, appartenenze religiose ed etnie. L’odio è il principale elemento di separazione tra i popoli e, se coltivato com’è avvenuto in Serbia e in Kosovo, non può che generare mostri. Per chi è spettatore della violenza stare da una parte e dall’altra è legittimo solo allo stadio e anche lì con molta cautela. – Un popolo inerme al massacro condotto,/ nessuno ha visto, nessuno ha parlato./ Cadaveri risorti dalla palude,/ orribili visi mostrati al sole,/ il dito puntato verso chi ha taciuto. Parlò del vero padre con un amore smisurato. Lo definì un indipendentista intransigente che donò la vita alla Patria e al Dio dei cristiani-ortodossi per difendere i suoi ideali e la sua famiglia. Disse della loro casa rasa al suolo, dell’esercito di mercenari che portavano solo violenza e odio, di donne e bambine straziate nelle carni, di cunicoli maleodoranti dove lei e la madre si rinchiusero per sfuggire dai crudeli artigli di quegli aguzzini. Poi, venne la salvezza, dopo un lungo peregrinare, tra campi minati e zone occupate da altre etnie. Ripararono in un campo profughi gestito da italiani. Per loro si prospettava un’estenuante attesa nelle improvvisate baracche di legno, tra il freddo e il fango, sotto un tempo inclemente che vomitava regolarmente acqua e neve, prima della pacificazione del territorio. Quel periodo non fu così lungo come si prospettava. Tra la madre e un ufficiale italiano che comandava quel campo profughi, nacque del tenero, non un vero amore, ma tanto bastava perché lui la convincesse a seguirlo in Italia. Si sposarono in una cittadina della Puglia, dove lui era di stanza e, in seguito fu destinato a Catania dove, in questo momento, risiedevano. Nonostante gli spostamenti del nuovo padre, riuscì a proseguire regolarmente gli studi e quest’anno si sarebbe iscritta al liceo della città etnea. Ascoltai, in estasi, quella triste storia, esposta con un preciso uso della lingua italiana, graffiata, qui e là, da un incidere ancora troppo freddo; solo per un attimo, sentii l’impulso d’intervenire e di chiarire. Sapevo di che cosa parlava, ma avevo la netta sensazione che non era disposta a raccontarmi altri particolari della sua personale storia.
“Ti trovi bene, in Italia?” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Ci pensò un po’ su prima di rispondere. “Meglio vivere nel certo che nell’incerto”.
Fu una risposta scontata, ovvia, però veniva da chi aveva visto e sopportato tante sofferenze ed era ampiamente giustificata. Dentro di me, adesso, si miscelavano molteplici sentimenti: ammirazione, solidarietà, tenerezza, inquietudine. Com’ero stato superficiale nel giudicare quella coraggiosa ragazza. Presi repentinamente la sua mano, volsi il palmo e lo baciai. Era sudaticcio e freddo.
Lei sgranò gli occhi. “Perché?” sussurrò.
Lasciai scivolare via la sua mano. “Scusami”, riuscii ancora a dire, vincendo l’angoscia che mi stava montando in gola.
Mi guardò con incredulità. “Di che cosa?”
Di essere un cretino, volevo risponderle. “Di averti trattato male, prima, nella vasca!” mi limitai a dirle. Lei sorrise e abbassò gli occhi.
“Me la sono meritata”!
Quelle parole erano di una modestia che le faceva onore. Da quel preciso momento ebbi la certezza di aver a che fare non con una ragazzina, ma con una donna matura e conscia di esserlo. Mi alzai dallo sdraio, portai le braccia in alto e le stirai con forza. Respirai a pieni polmoni quell’aria intrisa di zolfo in quel caldo meriggio di inizio Agosto. Mai, come adesso, sentivo, dentro di me l’estate: un calore nell’animo, una strana sensazione di novità, una voglia di scoperte, d’incontri. Ad un certo momento, dimenticando di essere in un luogo pubblico, mi misi a pensare a voce alta. Da ragazzo, nei momenti di particolare euforia, mi era capitato di mettermi a parlare da solo, tanto che le zie si erano spaventate e volevano chiamare un medico, ma riuscivo sempre a tranquillizzarle, dicendo che era uno scherzo. Ora mi sentivo di farlo liberamente senza paura di essere giudicato.
"Per prima cosa mi faccio un fango e una turbo doccia rigenerante, vieni anche tu?” La ragazza, senza sorprendersi di una domanda tanto estranea al contesto del discorso, prontamente rispose: "D’accordo" e, con quei suoi occhioni neri, sembrò evocare tutta la misteriosa bellezza della sua terra lontana e della gioia di vivere il presente.
“Allora, aspettami un minuto!” Le ordinai senza protervia.
Uscii di corsa dallo stabilimento e, dopo aver superato, con un po’ d’affanno, l’irta salita che portava alla zona alta delle terme, arrivai alla destinazione che mi ero prefisso. Entrai in un bazar dove, prevalentemente, vendevano articoli d’artigianato locale e chiesi di visionare dei costumi da bagno femminili. Lucia era una cliente affezionata e anche buon’amica della proprietaria. Vincenza, la titolare dell’emporio, per l’appunto, fece finta di non riconoscermi, forse le erano già giunte le voci della nostra separazione. Mai come nei luoghi di villeggiatura, le dicerie si susseguono e librano indisturbate nell’aria. Scelsi da un ampio campionario il costume che ritenevo adatto e dopo aver pagato un conto spropositato, una vendetta per solidarietà femminile, pensai, mi caracollai in direzione della piscina. Giunsi trafelato. Le porsi l’involucro. “Aprilo e dimmi se ti piace.”
Lei lo svolse con circospezione. “Perché lo hai comprato?” disse, reggendo in mano il bikini, alla maniera dei pescatori della domenica, quando catturano una preda non gradita.
“Non ti piace?” domandai. In me stava affiorando il dubbio di aver commesso una gaffe di proporzioni gigantesche.
“Non è questo!” replicò, con un‘espressione afflitta.
Il desiderio di sapere mi spinse a fare delle supposizioni.
“Hai paura di essere rimproverata da tua madre, per avere accettato un regalo da uno che conosci appena?”
Scosse ripetutamente il capo, smuovendo i capelli. “Mi sento come una che è stata risarcita da un danno subito”.
Abbassò la testa e aspettò l’inevitabile mia risposta che, in ogni caso, tardò ad arrivare. Accidenti, aveva colpito nel segno. Chi, da ora in poi, la trattava con superficialità o, peggio ancora, la guardava alla stregua di una profuga, avrebbe dovuto fare i conti con me.
“Si è vero. Era l’unica cosa, anche se stupida e banale, che mi sentivo e che potevo fare per te e, poi, il costume che indossi è poco adatto per i fanghi”. Alla fine sdrammatizzai ma, in me si manifestò la consapevolezza di non essere mai stato così sincero e spontaneo con nessuno.
“Grazie”, sussurrò. Sciolse i due pezzi, legati tra loro da una fibbia di plastica. “Dove mi posso cambiare?” Le indicai gli spogliatoi che si trovavano vicino alla piscina grande, al livello superiore rispetto al nostro.
“Mi sta bene?” chiese, con una punta di civetteria, appena mi si pose di fronte.
Non l’avevo sentita arrivare perché ero impegnato a mandare a memoria una poesia di Catullo di cui ricordavo solo il primo capoverso: Godiamoci la vita, mia Lesbia, l’amore/ e il mormorio dei vecchi inaciditi/ consideriamolo un soldo bucato…
“Il giallo ti dona”, mi limitai a dirle. Come avrei voluto dire, invece, che la trovavo bella, impudica, seducente, ma non era possibile, lei non poteva essere per me. Nonostante l’emozione notai un piccola incisione bluastra, forse un tatuaggio, che adesso, risultava bel evidente sopra a quegli slip ridotti. Era a forma circolare, alla stregua di un timbro ministeriale e a suo modo aveva un’arcana eleganza.
Anche questa volta la mia curiosità ebbe il sopravvento. - Dove era andata a finire la proverbiale riservatezza piemontese? - Così, con una leggerezza che solo gli stolti posseggono, le domandai, forse con una punta di malizia, la natura di quel tatuaggio.
I suoi occhi diventeranno cupi. Si mise a fissare un punto qualsiasi del cielo e a sbuffare. “Ti prego”, disse, digrignando i denti, “che senso ha raccontarti il brutto della vita quando siamo sotto questo sole così bello?”
“Beh, si, hai ragione!”. Era una bugia ma l’avevo detta solo per paura di perdere il piacere della sua compagnia.
Lei, allora, rincuorata, si venne a sedere alla punta del mio sdraio. Con fare apparentemente studiato, portò le mani dietro la nuca e iniziò a sciogliersi la lunga treccia nera. Adesso i capelli le scendevano a ciocche zingaresche sulle spalle; le labbra erano esangui ma staccavano squillanti sull’incarnato rosso peperone.
“Se ti racconto della mia vita, prometti di non fare commenti?” disse.
Era seria e pacata: addirittura non osava guardarmi in faccia.
Scossi con energia, dall’alto in basso, la testa: dovevo avere un’aria ben intimorita se lei non esitò a credermi subito. “Vedi che avevo ragione che è meglio se guardiamo il sole?” Ma, alla fine, raccontò.
Quel marchio a fuoco che aveva impresso sotto l’ombelico, non era altro che un’altra infamia perpetrata da spietati scherani, che perseguivano la teoria della pulizia etnica con il terrore e la violenza fisica su donne, uomini e bambini. Era un bollo che significava possesso, una cosa già espletata e di cui gli altri dovevano essere messi a conoscenza. Arrivarono di notte nella casa isolata nel bosco: una casa nascosta che pareva sonnecchiare nel passato; erano in sei e, come si dice, armati e mascherati. Con l’inganno si fecero aprire la porta. Frugarono nei cassetti e s’impossessarono di quel poco che era rimasto, dopo tanti mesi di carestia. Occhi bramosi scrutarono le due donne e, altri, s’impegnarono a legare il padre e il fratellino, di un anno più giovane di lei, ai piedi di una credenza. Tre sulla madre, tre sulla bambina. Dragana, all’epoca, aveva undici anni! Vinsero agevolmente, ogni resistenza. Solo uno di loro si fece strappare, dalle forti mani contadine della madre, il cappuccio di lana dalla testa e questo, in seguito, gli fu fatale. Le lasciarono lì, sul freddo impiantito: le bocche spalancate dal dolore, le carni lacerate impresse dal loro marchio, e il sangue innocente che si spargeva a frotte. Uscirono, urlando frasi sconnesse, latrando come animali appagati e, portandosi appresso il fratellino. Ma se nel serpente il veleno è tra i denti, negli spietati è in tutto il corpo e il male per loro non ha mai fine. Cosparsero con la benzina delle fascine di legno e le gettarono dentro la casa. Come in un sabba diabolico aspettarono che il rogo si consumasse e solo quando si convinsero di non aver lasciato testimoni alla loro violenza, si allontanarono ghignando in cerca di nuove vittime sacrificali. Non fecero i conti con il desiderio di vita che aleggia in tutte le persone, che è più forte del dolore e della disperazione. Pur a fatica, la madre si trascinò sul pavimento e riuscì a slegare il marito. Questi, facendosi largo tra le fiamme che ormai divampavano in tutta la stanza, raccolse, come un pietoso fardello, la figlia e la trasportò nella cantina sottostante. Incurante del pericolo e delle suppliche della moglie, ritornò nell’infuocata stanza. Da un’apertura del muro, celata dalla credenza, estrasse un fucile: un vecchio Garand della seconda guerra mondiale, ottenuto da un baratto, un sistema di pagamento ancora in uso nelle regioni balcaniche. Assicuratosi di aver posto in salvo i suoi cari, partì per la sua missione disperata: trovare gli aguzzini e porre in salvo il figlio. Non ci mise molto a scovarli. Erano in una bettola a tracannare vodka: sicuri e tracotanti. Li guardò ad uno ad uno e quando scorse gli occhi da lupo e il naso adunco di quello, a cui la moglie aveva strappato il cappuccio, sparò su di lui, senza pensarci due volte. La lotta fu impari. Riuscì a ferirne mortalmente due, ma dovette soccombere al fuoco di fila degli altri, che gli impedirono di portare a termine la missione di salvataggio del figlio che da allora non si sa dov’è. Il suo corpo fu portato all’esterno e impiccato, a testa in giù, come i vili. Ma lui, era un eroe e, quelli, spregevoli carnefici.
“Meglio aver fatto la fine di mio padre, che vivere segnata”, disse, Dragana, alla fine di quel racconto-calvario.
Non seppi fare di meglio che coprirmi gli occhi con entrambi le mani, come un codardo che cerca di non vedere la realtà. Ero in preda al panico più totale. Lei invece era quasi raggiante forse perché e, forse, per la prima volta, si era liberata da un enorme peso. Mi guardava di sbieco, come fosse vittima di un improvviso attacco di strabismo, con un occhio fuori assetto che mi cercava senza trovarmi.
Le risposi con calma, cercando di misurare le parole. “Pensa che ce l’hai fatta, nonostante tutto. E, adesso, sei qui, consapevole del dolore ma anche della tua precoce maturità”.
Mi guardò in modo sciocco, come la più quieta delle adolescenti. “Bisogna che io stia sempre all’erta, che me ne stia quieta e che non mi faccia intrappolare dagli sguardi cattivi o accattivanti delle persone, altrimenti per me sarà la fine. Io, sono sola, in questa giungla di belve feroci”. Non afferrai completamente il senso di quelle parole. Qualcosa mi sfuggiva. Cosa voleva dire, ad esempio, essere sola? “Ci sono i tuoi. Non voglio dire il tuo patrigno, ma su tua madre ci puoi sempre contare, no?” Lei mi sorrise, con quella grande bocca piena di denti accavallati. “Mia madre, da quel giorno, è morta dentro! Vive in un’altra dimensione.”
Un lungo silenzio s’incuneò tra noi. Avevo delle sensazioni di freddo che mi attraversavano il corpo come scosse elettriche. Lei s’accorse delle mie precarie condizioni psicofisiche e strofinando le cosce sulla sdraia si avvicinò ancor di più a me. Sentii subito il profumo del suo corpo accaldato che mi sfiorava. “Ti sei spaventato del mio racconto?” mi sussurrò con una voce che pareva provenire dal sottobosco.
“Scossi la testa in un falso diniego”. Avrebbe potuto essere solo una semplice constatazione di un inequivocabile stato di fatto. Ma lei, per fortuna, sorrideva premendo tra i denti la sua aria adolescenziale, col naso appuntito, gli occhi increspati pur se languidi e comprensivi.
“Voglio che tu stia bene”, mi disse, mentre con le due mani mi scuoteva il capo.
Fui preso da un impulso che sulle prime non riuscii a controllare: appoggiai le mie mani sulle sue braccia e la tirai a me. Le nostre bocche ora erano vicine, troppo vicine e bastò un piccolo spostamento in basso del suo capo per unirle in un bacio furtivo sulle labbra. Dopo restammo per lungo tempo in silenzio: lei distesa accanto a me con gli occhi sbarrati e con la mano ad accarezzare il mio braccio, io che la sbirciavo facendo a gara con i miei sensi di colpa.
Da lontano si levò un grido: Dragana!
Lei si sollevò di colpo da quella posizione supina, prese uno degli asciugamani di spugna bianchi, quelli che le terme davano in dotazione agli ospiti, se lo cinse sui fianchi e rispose al richiamo.
“Vengo subito, mamma”.
Prima d’andarsene disse: “sai a che cosa pensavo mentre stavamo sdraiati?”
“No”.
“Beh”, sbiascicò, “forse è meglio che non te lo dica”.
Mi venne da ridere. “Sì”, risposi, “è meglio che tu non dica più niente”.
“Ciao, allora”.
“Ciao”.
Quella sera stessa, tornando a piedi verso il centro termale, dopo aver fatto una scorta di sigarette nell’unica tabaccheria del paese, confidai a Daniele quella storia, compresa quell’unica furtiva effusione. “Che ne pensi?” gli domandai.
D’un tratto lui si fermò. “Giancà” disse, “temo che tu ti sia fatto troppo coinvolgere in questo affare”. Non risposi: d’altronde che cosa avrei potuto rispondere? Che aveva ragione? Ci rimettemmo in marcia tacendo fino in prossimità dell’aiuola che divideva la strada dall’edificio alberghiero. Finché lui non ritenne di dover tornare nuovamente sull’argomento. “Veramente”, disse, “un modo per uscirne con dignità, senza causare danni a nessuno, ci sarebbe: vattene da qui prima che puoi!”
Lo strattonai per un braccio: così aspramente da sorprenderlo. “E credi che non ci abbia mai pensato?”
“Allora che aspetti a mettere in pratica i tuoi pensieri?”
“Ma quella ragazzina ha bisogno d’aiuto!” dissi, al colmo della disperazione.
Daniele mi guardò come un aguzzino guarda il condannato che deve giustiziare. “Vuoi aiutarla,eh? Vuoi darle una mano per uscire dai suoi guai? Vuoi essere paterno e caritatevole con lei? Giancà, sei un vergognoso bugiardo. Tu da quella vuoi una sola cosa, poche balle. Libero di prendere per i fondelli te stesso e qualcun altro ma non il sottoscritto”. Detto questo si allontanò come una furia lasciandomi solo ad ascoltare il canto delle cicale.
La sera stessa feci i bagagli, senza dare giustificazioni di sorta e senza salutare nessuno mi allontanai da quel luogo che per me era diventato minato.
Nei giorni seguenti mi mancò molto: mi ero così abituato a lei che mi sembrava impossibile non ascoltare più la sua fredda parlata slava. Però, questa volta, mi sentivo di aver fatto la cosa giusta, di non aver perso il treno delle occasioni, anzi, di averci guadagnato in umiltà e dignità.

martedì 7 marzo 2006

Racconto d’estate, ovvero la maledizione di Margherita Baldacci.


Oggi è toccato a me fare diportaggio. Il mio socio non poteva proprio condurre il catamarano, perchè tornava la sua nuova compagna brasileira e lui doveva reggerle il moccolo. E così ho sistemato, a Peschici, nella casa della sorella, mia moglie, dicendole solo che andavo in barca per provare il motore EVINRUDE appena revisionato e che, comunque, mi sarei assentato non più di un paio d’ore. Quando arrivo al porto di Vieste gli ospiti erano già in fremente attesa. Si trattava di due sorellone tedesche alte e ben piantate, naturalmente bionde e, ovviamente, con gli occhi azzurro cielo. Mi guardano un po’ stupite e mi ci vuole poco per intuire la loro delusione: aspettavano il mio socio che, per dirla tutta, è di gran lunga più affascinante di me ( non ci vuole tanto), un clone dell’avvocato Agnelli, sempre abbronzato, argentei capelli al vento, la parlata blesa e un’impressionante ragnatela di rughe a scavargli la faccia, ma di estrazione e di cultura proletaria.“Dove andare?” mi fa una delle due, che biascicava un po’ d’italiano.“Giro lungo costa”, le dico.“Nein, nein, nein”, mi fa quella, con gli occhi che giravano a pala. “Noi avere contrattato con suo freund, amico, e avere già pagato per andare Isole Tremiti.”
“Cazzo sono fregato”, è il mio primo pensiero. “Se non pongo rimedio a questa situazione, qui va in replica “La cavalleria rusticana” di Scotty e Frator”, è il secondo pensiero.Afferro il cellulare e chiamo il mio socio, che intanto era arrivato all’aereoporto di Bari. “Stronzo”, esordisco, “non me lo potevi dire prima che quelle teutoniche volevano andare alle Tremiti?”“Beh, sai… avevo paura che tua moglie ti mettesse i bastoni tra le ruote…” si giustifica, balbettando.“Adesso il bastone me lo mette da tutta altra parte”, urlo.“Vedrai che capirà anche questa volta”, mi risponde morbido, morbido.“Senti, facciamo così. Torna prima che puoi, vai da lei e dille che sono stato chiamato per un’urgenza dalla Capitaneria di porto e che farò tardi. Mi raccomando, cerca di essere il più convincente possibile e soprattutto tienila lontana dal porto, sai, non vorrei proprio rovinarmi le ferie più di quanto non lo siano già.“Tranquillo, fratello, io so come prenderla per i…”L’interrompo bruscamente. “Se pensi ai fondelli, scordatelo, non credo che ce la farai. In ogni modo mi affido al tuo buon senso.”Nel giro di 15 minuti la barca è allestita. Il boma tirato, lo spinnaker pronto per svolazzare e per fare andare più forte il catamarano e il motore Evinrude, in verità ancora malridotto, montato nel caso che il vento decidesse di ritirarsi.Partiamo. Intorno a noi, un nugolo di pescatori e di turisti ad ammirare queste bellezze botticelliane che, intanto, si erano messe comode: un tanga nero e una striscina dello stesso colore a reggere i… capezzoli. “Se le vedesse il Vince”(un allupato navigatore di forum), penso, “avrebbe uno straniamento..” Il catamarano va che è una meraviglia, spinto da un vento a forza 3. Le teutoniche, si affannano alle vele mentre, io, al timone, mi affanno per non guardarle. Non ci parliamo molto. Loro si limitano a qualche gut, gut, quando passiamo accanto alle frastagliate scogliere di Peschici, ed io rispondo con ia, ia.Dopo due ore esatte di navigazione arriviamo alle Tremiti, dette anche Diomedee dal nome del leggendario eroe greco, Diomede, che li fondò e dai suoi fedeli compagni mutati in uccelli per sorvegliare il suo sepolcro. Viste da una certa distanza appaiono come tre grandi sassi bianchi che galleggiano sull’Adriatico e il mare che li circonda ricorda le trasparenze cristalline e i colori dei mari tropicali. Ancoro il catamarano alla cala del Pigno in prossimità del parco marino subacqueo, un’area protetta considerata fra le più belle del mondo. Le teutoniche questo lo sanno e, prontamente, s’infilano maschere e pinne e si tuffano nel blu cobalto per ammirare le gorgonie, i palinuri e altre famiglie di pesci che albergano in quei fondali. Il sole, batte a picco, s’infiltra tra le piccole increspature delle onde formando milioni di pagliuzze dorate. Nell’attesa, dopo aver adempiuto alle normali incombenze della barca (mollare le vele, controllare l’efficacia dell’ancoraggio), mi rappacifico con il mondo ascoltando il “mio” Baccini, da un minuscolo lettore di Mp3 regalatomi a fine anno dalla mia classe. S'inserisce la canzone che la fantasia di Baccini creò per una certa Margherita Baldacci, un'eroina portatrice sana di sfiga e io non posso fare a meno di toccare qualche finimento navale metallico. Non passano nemmanco dieci minuti che una delle teutoniche, quella che non pronuncia una vocale d’italiano, emerge dalle acque. Ha la faccia dolente, gli occhi roteanti e il polpaccio della gamba destra blu. Capisco che è stata punta da qualcosa, presumibilmente è andata a sbattere contro una gorgonia, che sono piante marine di una bellezza mozzafiato ma nascondono dei rami velenosi che se urtati scatenano una sostanza tossica che può portare un arto alla necrosi. Intervengo con l’ammoniaca a stick, ma è del tutto inefficacie. Allora non mi rimane altro che ricorrere al metodo empirico. Afferro saldamente con le mani il suo polpaccio e lo mordo nel punto dove c’è stato il fatal contatto. Incurante delle sue grida da anatra impazzita, proseguo la mia operazione cannibalesca fino a quando il suo muscolo si sgonfia e la carnagione diventa più chiara. Faccio delle abluzioni con acqua minerale per detergere la parte colpita, ma ritengo superfluo disinfettare la mia bocca e questo mi sarà fatale. Ripartiamo. Adesso mi tocca far tutto da solo. L’altra sorella si sta dedicando “all’ammalata” ponendole delle pezzoline bagnate sulla fronte nell’eventualità di un rialzo febbrile. Il Kin'tun sente la mano del padrone e scaracolla come quel delfino che ci passa accanto. Non c’è bisogno d’altro. Mi metto al timone e mi sparo di nuovo Baccini nelle orecchie. “Ho voglia d’innamorarmi”, forse per lui e per molti altri che ascoltano questo coinvolgente brano ma, ahimè, non per me, io ho già dato.“Cosa ascoltare, tu?” mi fa ad un certo punto la Ursula, l’italianista.“Musik sentimental”, rispondo, in para gemanico.“Ah, musiK napoletana. Nino D’ancelo, Gigi D’alezzio, Mario Merla” , ne avesse ingarrato uno di nome.La guardo in cagnesco: ma per chi cazzo mi ha preso questa qui; non sono mica uno scaricatore di porto di Gioia Tauro (con il dovuto rispetto per la categoria), sono pur sempre un uomo di “cultura”, azzo e di gusti raffinati per giunta.“Nooo!" affermo, orgogliosamente.“Io ascolto solo Baccini, Francesco Baccini, kennen?” (conoscere, una delle poche parole che so di tedesco).“Baggini? ” mi fa lei di rimando (che strano, quando c’è da pronunciare la c la fanno diventare gutturale e viceversa).
" Hören, sentire,!” mi dice, senza mezzi termini. Con buon cuore, vista la situazione precaria, ma a malincuore per il resto, le passo Francesco. “Shön?” (bello) le dico dopo un po’.E lei, elevando il pollice della mano: “Prima”, che è una specie di OK alla tedesca.Intanto siamo in prossimità del “continente”. I bianchi calanchi di Peschici emergono dall’afosa foschia e lassù, in punta al pennone, c’è la casa di mia cognata. “Chissà cosa farà la Scotty?”, penso, e soprattutto, chissà come è stata avvertita del mio ritardo.Ho dei dubbi, quasi una preveggenza d’imminenti tsunami e intanto che penso a queste naturali catastrofi avverto che in me, nella mia corporalità, qualcosa non va per il verso giusto. Inconsueti brividi di freddo, nonostante la calura, attanagliano le mie viscere e, in più, avverto uno strano picchiettio sulle labbra. Ci passo un dito sopra e sento un notevole rigonfiamento. Faccio un segno a Ursula che, rapita, ascoltava la musica di Francesco e, questa, mi guarda con raccapriccio. “Oh, comandate. Labbra Kaput!”Il percorso per il porto di Vieste è ancora lungo e le mie gambe cominciano a rammollirsi. Capisco che non ce la faccio a governare le vele e così, con la poca forza rimastami, le smollo e penso di fare andare la barca a motore. Speriamo che l’Evinrude non mi tradisca, come ha fatto pochi giorni prima con il mio socio lasciandolo in mezzo al mare. Tiro la cordicella dell’avviamento (il bottone automatico è fuso) ma il motore non ne vuole sapere d’accendersi. Borbotta, sbuffa e poi, miracolo, c’è l’arrivo, in ritardo ma arriva.I gabbiani, avvertiti dal rumore sciancato del motore, turbinano sulle nostre teste squittendo con fragore. Finalmente, in lontananza, scorgo le rosse gru del porto nuovo di Vieste: la mia sofferenza sta per avere fine. Il Kin’tun entra in porto, evitando per bontà divina un peschereccio in uscita. Sento le insulse grida dei pescatori: “ A chi te muerte e stra muerte”, ma non è tutto qui, c’è di peggio. Sulla banchina d’attracco si staglia una piccola figura di donna. Le mani, alla federale fascista, sui fianchi, le gambe aperte, la mascella volitiva: è lei, la Scotty e la mia preveggenza si materializza. Non mostra molta sorpresa nel vedermi e questo è un brutto sintomo: vuol dire che non ha sentito ragioni, ne preso per buone le spiegazioni del mio amico che, adesso, sta alle sue spalle e allarga le braccia per significarmi che non ha potuto farci niente. L’ho sempre detto che la mia Scotty ha sbagliato mestiere, che non doveva fare l’insegnante ma bensì l’agente segreto in missione speciale (dovevano mandare lei per salvare senza strascichi di sorta la Sgrena anziché il povero Calipari; questo è la dimostrazione che il Governo Berlusconi è miope, ahahah, riso amaro).“Sto male!”, esordisco, appena gli sono vicino.“C’è una giustizia per tutto”, mi risponde lei, implacabile.Per fortuna che c’è il mio socio e nel vedermi così mal ridotto decide di andare a chiamare un medico che ha la sua barca sulla banchina vicino alla nostra.Nell’attesa, mi siedo sul ceppo per l’attacco gomena, circondato dalle tedesche e dalla Scotty che non le degna di uno sguardo che è uno. Ursula mi mette tra le mani il lettore di Mp3 e con un italiano sempre più incerto mi dice: “puoi, mmm. chiavare questo?”
“Che dice sta zoccola?” inveisce la Scotty.“Calma, amò”, le faccio, cercando di ridurre la sua ira. “Voleva dire se le posso masterizzare Baccini”.
“Madò, che palle, c’è sempre sto Baccini in mezzo!” è la sua unica giustificazione all’inelegante improprio di prima.Intanto arriva il medico, un primario di cardiologia, presso un ospedale di Bologna. Qui ha un motoscafo di grosse proporzioni che usa per non più quindici giorni l’anno e, nelle debite proporzioni, gli costa più il carenaggio che l’acquisto dello yacth. “Lei sta bene, non corre nessun pericolo”, fa alla tedesca che si era fatta visitare per prima, “sei tu, che sei inguaiato, ma come hai fatto a ridurti in questo modo?”Gli spiego la meccanica del fatto, i morsi dati e la mancata disinfestazione della bocca.Quello se la ride di brutto. “Non potevi premere con le dita per far uscire il veleno?”
“Eh, no, non sarebbe da lui. Non aspetta altro che agguantare le femmine, lui!” interviene la Scotty, sempre più incavolata.“Vabbè, vieni sulla mia barca che ti controllo”, mi fa il prof. Pressione bassa, polso esagerato, defedamento delle condizioni generali, ecco il perché dell’herpes, febbre che indica un probabile avvelenamento del sangue, questa è la sua diagnosi. Mi somministra un siero per via intramuscolare e un antibiotico per via orale. “Se entro un paio d’ore le condizioni dovessero rimanere così ti devi fare un’ipodermoclisi disintossicante, pertanto ti consiglio di tornare in città dove c’è un ospedale più organizzato rispetto a quello di Vieste”, afferma.Quando arrivo in città mi sento già meglio. La febbre è sparita e di conseguenza i brividi glaciali. Confortato da queste condizioni ottimali e con l’animo rappacificato, nonostante le burberie della Scotty, mi siedo al computer e mi collego sul Forum di Baccini. Ci sono tre gatti, eppure non è così tardi, la mezza, all’incirca. Tempo di scambiare qualche “chiacchiera” con Crazy e qualche benevola frecciatina con Fitty e i sintomi ritornano prepotenti. Corriamo al pronto soccorso e qui mi fanno un lavaggio del sangue e per precauzione mi ricoverano.Mi hanno dimesso il giorno dopo. Sono tornato quello di prima e sono pronto per ricominciare la vita di sempre: a navigare sul mare e a barcamenarmi nella vita. Mi faccio una promessa: non ascolterò più per il resto della vita la canzone di Margerita Baldacci.
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