giovedì 9 marzo 2006

Sulfurea 2


L’ora di pranzo rappresentava per gli ospiti del Grand’Hotel un rito. Anche se, adesso, in verità, questo culto si era alquanto ridimensionato lasciando il campo all’improvvisazione degli ospiti e del personale di servizio. L’invasione dei “mutualizzati” aveva portato nuovo benessere all’azienda termale ma, di conseguenza, aveva abbassato la qualità e il prestigio della ricettività. Quello che prima era considerato il fiore all’occhiello degli Hotel calabresi, ora era diventato un convitto nazionale come ospitalità e una mensa aziendale come ristorazione. Era una citazione cara al mio amico Daniele, condivisa dalla moglie Dina, i DaDi li avevo denominati, assimilandoli in un tutto uno, romani di residenza ma apolidi come culture. Con loro c’era un’amicizia che durava da un quinquennio e che andava di là degli incontri annuali alle terme. Ci sentivamo spesso e ci vedevamo ogni qualvolta si presentava l’occasione giusta: un onomastico, un compleanno, la nascita di un loro nipotino o solo per il desiderio di vederci. Della mia storia erano gli unici a sapere tutto e questo la diceva lunga, in rapporto con il mio carattere chiuso e diffidente. Ovviamente, ero ospite al loro tavolo. Avevano già iniziato a pranzare, conoscendo bene il mio difficile rapporto con la puntualità.
“Già al lavoro?”, esordii.
Dina mi stampò uno dei suoi sorrisi maliziosi mentre, Daniele, alzò gli occhi al soffitto.
“E’ pronto a sparare una delle sue dotte latinate”, pensai.
E così avvenne: “Usus efficacissimus rerum omnium’magister”. Mi guardò con un’espressione furba e aspettò, come spesso faceva, la mia traduzione.
Questa volta mi era andata di lusso. “L’abitudine è il miglior maestro di tutte le cose. Va bene sapientone?”.
Scosse la testa. “Quasi. Non hai citato l’autore, però?”
Buttai un nome. “Erasmo da Rotterdam, forse?”
Le sue pupille lampeggiarono. “Molto prima”.
Era un gioco tra noi e ci piaceva giocarlo fino in fondo. “Plinio?” sussurrai.
“Vecchio o giovane?” insistette.
“Ma, direi vecchio, perché il giovane non era così profondo”.
Fu un altro azzardo e lui lo rilevò prontamente. ”Hai tirato ad indovinare, però hai avuto fortuna, con la C maiuscola”.
Mi guardai attorno. “Come mai ci hanno sistemato da questa parte? domandai.
“Hanno voluto separare i soliti dagli insoliti”, rispose Dina, indaffarata a tagliare un pezzo di carne piuttosto dura, domandandosi se era colpa del coltello, della carne congelata o della sua mancanza di forza fisica.
Eh si, aveva ragione: tutte facce conosciute davanti a noi. Guardando bene sembrava un disegno preordinato. Una perfetta scacchiera umana ma senza pedoni. Sul mio lato sinistro era schierata l’intellighencja calabrese: un professore universitario molto acuto e un po’ misantropo, in compagnia dell’anziana madre, piccolina come uno scricciolo, ricordava un uccelletto un po' spennacchiato, con i suoi pochi capelli grigi che le svolazzavano sul capo e gli occhi vispi come grani di pepe; poco più avanti, un guardingo e silenzioso magistrato, dall’espressione triste ma non troppo severa. In cinque anni di conoscenza posso dire di averlo sentito raramente parlare. La moglie gli assomigliava nei tratti allampanati e nella presenza austera. E poi, a completare la triade dell’intelletto socio-giuridico, c’era un avvocato, anch’egli calabrese dall’altezza smisurata e dalla voce burbera. Pur vestendo abiti adeguati alla stagione, pareva sempre in uniforme, per la solennità del suo incedere. Coltivava l’hobby della letteratura; raccontava con un tratto leggero ma incisivo una storia dimenticata, d’eroi dimenticati, di una guerra dimenticata. La sua compagna apparteneva ad una famiglia d’antiche tradizioni socialiste che aveva espresso un parlamentare la cui notorietà valicava i limiti territoriali. Si vedeva che era fiera del fratello ma evitava, credo per modestia, di parlare di lui. Sul lato destro era disposta l’imprenditorialità e la borghesia meridionale: Pino, il cioccolataio, la cui fortuna era partita dalla raccolta dei fichi e dall’idea, a quel tempo rivoluzionaria, di essiccarli e rivestirli di cioccolata. Da quando lo conoscevo, indossava sempre il solito vestito stazzonato e calzava un curioso cappellino da baseball, dov’era disegnata una foglia di marijuana e la scritta Jamaica for Bob Marley. “Il mio è il cioccolato più buono del mondo”, sosteneva, con enfasi. Sulle prime pareva una boutade, una dilatazione della realtà che qualche volta i vecchi amano glorificare poi, si è saputo, che l’esportazione delle sue dolcezze arrivava in ogni angolo del mondo e sulle tavole di famosi personaggi che fanno il mondo. Il suo rapporto sessantennale con la moglie Marì, che nonostante gli acciacchi dell’età e un passo claudicante si ostinava a prodursi in romantici balli latini era, a dir poco, controverso. A tavola, non scambiavano parola e quando lui ordinava i caffè non si dimenticava mai di suggerire al barman di aggiungere in quello della consorte la cicuta. "Buonasera cavaliere", lo salutai un giorno. "Di più", mi rispose, appuntendo gli occhi. "Allora buonasera commendatore", gli faccio. "Così va meglio, ma è preferibile che mi chiami Pino Cioccolataio tutto attaccato, perchè mi riconosco meglio con il nome e il cognome. Sono legato a lui, a questo uomo del sud montuoso che si è inventato il suo Eden di ricchezza dai più umili prodotti della terra, da un sentimento di grande tenerezza per via della sua stravaganza che si manifestava anche nelle cose più semplici come, ad esempio, la teatralità nel fumare: la sigaretta faceva un giro di 180° prima di raggiungere le sue labbra. Nel tavolo vicino al loro sedevano le Bluebell, così le chiamavano i ragazzacci, vale a dire, Daniele ed io. Due donne, la cui pervicacia nel difendere la perduta bellezza, rasentava, a volte, il grottesco e, in perfetta solitudine, un’ossuta avvocatessa lombarda che eguagliava di gran lunga i miei ritardi. Le sue entrate a fine pranzo erano diventate proverbiali. “Senta lei, cosa ha mangiato oggi?” m’apostrofava, con un finto tono autoritario, appena arrivava al mio tavolo. Ascoltava con attenzione, fissandomi da dietro i suoi spessi occhiali da miope, la lista dei piatti poi, ordinava sempre il solito: una minestrina vegetale e carne ai ferri con insalata di pomodori. Al centro di quella manica erano allineati gli alti gradi dell’esercito: un generale pilota, da poco in pensione, con la moglie, che ancora si doveva riprendere dalle paure che il marito le riservava quando doveva collaudare nuovi aerei; un giovane colonnello medico, anche lui in compagnia della consorte, una massiccia biondina dai piedi sempre gonfi. Non si capiva perché venissero alle terme, poiché non utilizzavano né i servizi, né le prestazioni sanitarie. Amavano il mare e ogni mattina prendevano la navetta che li portava in spiaggia. Alla fine della giornata si presentavano stracotti. “Che faticaccia!” erano soliti dire. Daniele li guardava con i suoi occhietti puntiti e poi tirava fuori del cilindro uno dei suoi motti latini: “Quidquid conaris, quo pervenias, cogites” – In ogni iniziativa pensa bene a dove vuoi arrivare. –
Tra i tanti soliti, c’era un tavolo di “insoliti”, composto di tre persone. Un uomo dalla presenza statica. Sul suo volto troneggiavano dei lunghi baffi neri a manubrio, sicuramente demodé; una donna florida dalle guance colorite, due occhi celestoni che fissavano seri e guardinghi tutti gli ospiti, come se avesse timore di chissà che cosa e una ragazza, di cui riuscivo a vedere solo la schiena nuda, attraversata da una lunga treccia nera legata con un elastico rosso. La presenza di quest’ultima, mi retrocedeva dalla classifica del più giovane in sala. Il salone si stava rapidamente svuotando. Anche i DaDi si erano alzati, stufi di contemplare come mangiavo. “Ti aspetto fuori”, disse Daniele, ridendo. Per i romani d’oggi, questa locuzione, rappresentava una sorta di minaccia all’incolumità personale mentre, per lui, non era altro che un tiro a salve, sparato unicamente per solleticare simpatia.
“Quest’anno ho portato io le carte da canasta”, s’intromise la moglie.
Già la canasta! Maledetta canasta! Non era altro che un andito dei passi perduti, delle ore rubate al sole e al sonno, un vero tormentone estivo da cui, però, non ci si poteva tirare indietro. “Abbi pietà, Dina. Almeno il primo giorno lasciami respirare”. Cercavo in tutti i modi di trovare un alito di comprensione.
“Vabbè, come vuoi! Se preferisci bruciare al sole la tua pelle d’asino, fai pure”.
Non si era affatto offesa del mio rifiuto. Lei aveva così tante frecce nel suo arco che, certamente, sarebbe riuscita ad affollare il tavolo verde con altri personaggi ben più qualificati di me.
Ero arrivato al dessert quando notai delle figure passarmi accanto. Alzai gli occhi e incrociai lo sguardo della ragazza con la treccia. Sulle prime non la identificai, ma fu questione di un attimo: era il Gianburrasca che aveva rovinato la mia mattinata in piscina.
“Buon giorno, signore”, disse.
“Giorno”, farfugliai, colto alla sprovvista. La guardai di straforo mentre si allontanava: alta, magra con una minigonna bianca di stile sportivo dalla vita così corta da lasciarle completamente fuori il costato, lo sguardo deciso reso conturbante da leggere sottolineature di matita nera e, ai piedi, calzava delle scarpette rosse con i tacchi che la rendevano più slanciata di quanto già fosse e molto meno infantile. Bella era bella, ma rimaneva pur sempre una bambina anche se dal suo abbigliamento si poteva pensare che aveva voglia di lasciare al più presto quell’età. Nello stesso tempo però sapevo che l’avrei ancora guardata con interesse perché non si sfugge alle proprie vocazioni. E ogni successivo sguardo, sapevo anche questo, sarebbe stato più triste del precedente.”

Nessun commento:

Posta un commento

Back to Top http://www.degraeve.com/favicon/favicon.ico?9583.72994399728