mercoledì 25 marzo 2009

O Capitano mio Capitano.

“Il piacere unisce i corpi, la pena le anime”

Start. Ed è con questo pensiero di Guido Ceronetti conficcato nella testa che sono partito alla volta di Sanguinetto. Non ho lasciato animi affranti, né ho visto fazzoletti sventolanti, d’altronde non potevo vederli perché gli occhi erano coperti da una voglia matta di magia e di colori sgargianti.
Ero combattuto tra Palinuro e la sirenetta di Andersen, che impudente esagerazione, uscire dal mare delle consuetudini, non sentire le capziose sirene e arrancare in quest’impresa tanto anelata! Ma il Capitano mi è compagno, amico, poeta, medico dell’anima animalesca molto speciale. Lo è stato per me lungo questi mesi di frequentazione della “piazza”, e poco importa dove lo sentivo presente, vicino: se nel tempo immaginario o in quello reale, se nei luoghi della mente o in quelli fatti di terra, di acqua e di tastiera. Compagno e amico come nell’età antica, cioè nell’età adolescente. L’adolescenza è quello che insegni e che vivi e che scrivi: è il primo segno che mi è venuto da lui. Solo l’adolescenza accompagna e ama, d’un sol fiato e quasi in affanno. Solo un adolescente fugge se i due sentimenti si divaricano, o se uno dei due si dissecca lasciando in vita solo l’altro. Solo un adolescente è specchio perfetto dell’amicizia di Chamfort: quell’ “amitié extrême et délicate, souvent blessée du repli d’une rose”. L’adolescente brucia e si consuma, con o senza fiamma, ed è perché brucia e si consuma che ha sete di alto.
Un sospiro d’immenso sollievo plana su di me quando vedo in lontananza lo svettante campanile di Sanguinetto. Addio lunghe strisce d’asfalto. Addio Verona, uscita sud, che mi ha fatto saltare l’indice magnetico della bussola umana che avevo scrupolosamente incorporato. Addio serre che assottigliano l’aria. Addio paesini del mobile artigianale dove il benessere sputa l’evidenza, è giunta l’ora mia di tirare fuori gli artigli di mansueta tigre e di fare Pasqua.
Tromba. Sveglia d’ordinanza per Palinuro.
Ma chi era Palinuro?

Il pre-concerto. Qui, davanti al Chiostro dei Cappuccini c’è solo Frator, un adolescente che ha fatto il sessantotto, il sessantanove e il settanta e poi si è dato alla macchia. Un fanciullo che ha creduto nella luce e si è assoggettato al buio. Un ragazzo che non ha mai rinnegato i valori e che vive con rabbia in una società dove i valori sono considerati alla stregua di escrementi. Gli dei, però, sono clementi e ogni tanto accontentano gli umani. Radunano apposta, ingegnosi, una ghirlanda di persone, di volti che hanno il profilo d’eternità. Ecco Carol, la Regina delle stordite, che mi riempie di un abbraccio che ha la forza di un Ciclope. Stordita? Si! Ma d’amore! Ecco Crici, che ha messo nel cassetto dei ricordi sgradevoli un femore fratturato e che adesso si gode con cotanto marito la gioia del presente. Ecco Barbara che è uscita da Domitilla e si presenta così com’è, con tutto il suo contaminante entusiasmo. Il coperchio si è alzato e dalla pentola escono profumi conturbanti. L’essenza Daniela-Budyna: due occhi che catturano, sovrastando la sua minuta figura. Ci vogliamo bene, le voglio bene, la sento presente, sempre, anche se non ci siamo mai addati. L’addatura, orrido termine che nasce da un traduttore incazzato, è un formalismo, una convenzione, mentre tra noi c’è concretezza e comunione di pensiero. E, poi…ecco la rumba, la salsa, il ritmo latino-americano che ti strega, t’incatena, fino a toglierti il fiato. Eu, ti fa pensare ad una gazzella, ma lei è donna-pantera dalla cima dei capelli alla punta dei piedi. Donna in amore, donna di passione, un colpo di vento che spazza via le nubi, un sorriso che è luce e schiettezza.
“Quando ti vedrà Enrico….”, mi sussurra tra un abbraccio e l’altro.
Eccome se mi vede, Enrico, il mio Capitano. La sua figura sghemba si staglia sull’impiantito del convento. Viene verso di me, poi si ferma, allucinato, dalla mia grossa possanza. “Professore. No, non ci credo”. Il nostro abbraccio equivale a una scossa tellurica che si propaga nelle viscere, che blocca ogni via di fuga. “Dai su vieni a casa mia” mi dice quando ci riprendiamo dallo sconquasso.
Una delicata guida, il "Tributo", manager di Enrico, mi porta nella casa avita.

La casa. Una volta entrato vengo inglobato in un cunicolo di libri che si ergono come pietre miliari in una libreria che sembra costruita non da un semplice ebanista ma da un liutaio, tanto è armonica. La mia mano scatta verso l’alto e cattura un libro. L’apro e annuso le sue pagine che hanno l’odore del tempo e delle dita che le hanno girate. Pochi passi dopo c’è il giardino, una posada verde dove scorazzano felici due cagnolini che hanno preso il posto del mitico Tatù, il protagonista di una delle canzoni più belle dell'Enrico. Due caratteri diversi, due facce diverse, due virgole che separano un pensiero. L’uno, il barboncino dal pelo bianco e ricciuto, è un giocoliere nato, un trapezista sprezzante di ogni pericolo, che salta, si dimena, sprigionando gioia da ogni poro; l’altro, un bassotto dal pelo lucido e rasato, dal profilo aguzzo come il suo padrone, meditativo, è un attento osservatore delle cose e della gente. Lo spazio è mio e guai a chi me lo ruba sembra dire quando i suoi lunghi occhi ti scrutano. E’ da lì, da quel giardino incastonato fra i muri delle case che noto lo studio del Capitano. E’ come me l’aspettavo, come l’avevo immaginato riflettendo sul luogo ideale di produzione delle idee di un Capitano di lungo corso. Un caos razionale. Un mare di foto che avvolgono, che spiegano il suo mondo, che evidenziano gli affetti più cari, che incastonano quella finestra aperta sul mondo che è il computer. Una finestra sempre spalancata, un cono di luce ardente che aspetta solo un clic per propagare il suo raggio di sapienza. Non ero solo in quel luogo di sconfinamento dalla realtà. Su un divano sbiellato era seduta una nuvola bionda. Impossibile ignorare tale gravità. La nuvola si svela e il suo nome ridonda, richiama immagini viste e riviste, affetti dichiarati, presenze costanti: Raffaella. Eccola! Materiale umano prezioso, diafana d’aspetto e dirompente di verbo. Un gaudio per gli occhi, una gioia per il cuore, un tripudio per orecchie stanche. Banale? Mai! Superficiale? e chi conosce l’aggettivo! Lei è Lei e guai a chi me la tocca.
Intanto, in quel gioco di parole che ci scambiamo, irrompe il Capitano. Aspetta paziente che finisca l’effluvio e poi, guardandomi con occhi scrupolosi, mi fa: “Vieni con me, prof”. Era quello che aspettavo e non vedevo l’ora che accadesse.

Interno casa. Una casa vissuta da tanti e tra i tanti, Eugenio Montale, che ha lasciato dei graffiti, uno per ogni componente della casa. Profetico l’omaggio al Capitano: una barchetta che naviga e che non arriva mai.

Zona cucina. Un uomo ricurvo siede al tavolo. Davanti a lui una tazza e delle fette biscottate spalmate di marmellata, schierate con cura e precisione la stessa che aveva nella preparazione dei suoi articoli sul Corriere della sera. E’Giulio Nascimbeni il padre di Enrico e mio inconsapevole salvatore dai marosi dell’insipienza. Debbo a lui i tanti salva gente lanciatemi quando ero in crisi d’idee nel preparare le lezioni, come debbo a lui la considerazione sproporzionata che i miei studenti avevano del mio linguaggio forbito. Non sapevo come chiamarlo e mi veniva solo Maestro e così ho fatto. E’ stata la cosa giusta!
Le parole di un padre sono sempre un misto di ansia e di tenerezza e quelle dette da Giulio al figlio non si discostano dalla consuetudine: “Mi raccomando, comportati bene questa sera!” Il sorriso montato sul suo volto esprimeva amore e orgoglio.

E venne subito sera. “Sto bene vestito così prof?” mi chiede il Capitano poco prima di andare al concerto. E ottenuto il mio assenso, non so con quanta persuasione del mio giudizio, è pronto per dare il meglio di se. Lasciamo la casa riposare dalle nostre grida e ci avviamo tutti verso il chiostro. Strada facendo si consolida la mia amicizia con Paolo Pilo e la diletta, dolcissima, moglie e naturalmente Raffaella che fa voltare molte teste maschili per la sua svolazzante mise e l’incedere voluttuoso.
Trovo Paolo una persona deliziosa che sa dare un senso non solo alla sua vita. Con lui abbiamo parlato di testi e ho scoperto la sua facilità di scrittura legata ad un notevole senso di percezione della realtà umana che lo circonda.

Il concerto. Il chiostro è vestito di incanti unici. Illuminato dalle candele reincarna il suo passato medioevale fatto di preghiere e meditazione e questa è proprio la sera dove il pensiero troverà il suo appiglio. La gente è quella giusta ed è tanta. Il nemo propheta in patria lascia il posto al quacumque de causa.
Le suggestioni iniziano con Gilberto Lamacchi che, in apertura di concerto, interpreta una delle più belle canzoni di Enrico: “Fiocco di neve” e lo fa con estrema dolcezza e quando le parole lasciano spazio alla musica, ecco che lui interviene con il suo flauto traverso che da all’armonia forme struggenti e uniche.
Adesso è l’ora X. Il Capitano si concede al suo pubblico e l’affetto è tanto. Lui lo sente e si prepara a dare il massimo. Fioriscono le sue canzoni del “Male d’amare” e due suoi inediti che andranno ad arricchire il prossimo album, sorrette da un’interpretazione minimalistica intensa e delicata. Ogni brano trova una sua prefazione, una motivazione, un input di iniziazione alla struttura poetica. Così tutto diventa avvolgente, pieno, interdisciplinare dove tutti vengono coinvolti. Questo significa recital, interpretazione globale, coinvolgimento partecipativo e il Capitano è un’interprete ideale di tutto ciò e la band che l’accompagna ha carpito perfettamente il suo pensiero. Ogni nota ha un senso, ogni parola si fa nota e questo, tutto questo, è musica.
La gioia di stare con la sua gente, con i suoi amici di my space, è condivisa da altri due artisti, suoi amici di lunga data: Paolo Pilo, che lui chiama Giorgio e qui deve correre sotto il palco la solerte Eu per correggerlo dando il la involontario ad una sua fulminante battuta - “Beh vuol dire che non è poi un amico di lunga data” - e Marco Massa. Tutti e due cantano le loro canzoni autorali e lo fanno con passione e riconoscenza, consegnandoci dei testi validissimi e voci oltremodo impostate.
Un finale travolgente: “Tatù” e l’emozione sale; “Stigmate”, dalle struggenti sfumature; “Siamo storie dentro le canzoni”, un canto corale, le braccia alzate che accompagnano il ritmo. E’ il clou ma è anche la fine di un concerto meraviglioso, un qualcosa di così intimo e abbagliante come non l’avevo mai provato. Se in quel momento fossi stato in grado di avere un pensiero avrei pensato che nulla è paragonabile ad un piacere del genere, quando lo si prova dopo averlo lungamente agognato. Io lietamente passivo, abbandonato, dopo essermi guadagnato il pane dell’amore. Il palco si svuota ma il parterre rimane immobile come stregato da una magia sospesa nel calore umido della notte.

Il post-concerto. La casa avita ritorna a vivere. Siamo tutti lì su quella lucida striscia verde a festeggiare il nostro Capitano. Clic di macchine fotografiche, autografi, magliette in dono, fiumi di liquidi e poi il risotto che entra in pompa magna in una grossa pentola portata come un trofeo da quel liutaio che ha costruito l’arca dei libri. Una persona speciale, come sono speciali tutti gli amici veri del Capitano. Marco Massa, ad esempio, un tratto corporale possente come la sua voce, ma una dolcezza di parola che ti mette in pace con il mondo; Alessandro dalla parlata veneta e dalla risata pronta che coinvolge e una ragazza alta come l’Everest che una volta raggiunta la sua cima varrebbe la pena conficcare la bandiera.
E’ l’ora dei saluti. Mi piacerebbe rimanere, scambiare ancora parole, vivere ancore le magie di una serata irripetibile ma la strada per il ritorno è lunga e fra poche ore dovrò varcare a Sud il Rubicone.
Gli addii sono dolorosi, il rimpianto è un colpo di vento che spalanca una porta chiusa ma rimane la convinzione di aver creato un gruppo solido, unito, in nome della musica, della poesia e di tutto quanto rende piacere nella vita. Un gruppo che non si fa guidare da un uomo ma che condivide con lui il sapore della parola in ogni sua sfumatura. E il Capitano è un uomo che non ha paura di addentare le arterie stesse del linguaggio; usa arpioni e morsetti, armi proprie ed improprie; colpisce ben al di sotto della cintura e come un grillo salta e canta, il dorso chino per sopravvivere all’indecenza di queste sciagurate stagioni del disamore.






Frator

lunedì 23 marzo 2009

Adua e le farfalle


Ci conoscemmo in giugno, l’aria era immobile, l’arsura rilucente in qualsiasi punto della città e nel mio studiolo, un antro poco battuto dal sole ma egualmente ribollente, il ventilatore a pale era sull’ultima tacca consentita.
Anche il computer sembrava svogliato. Gli hard-disk andavano a rilento e il monitor rifletteva una luce mai così vivida. Il traffico postale, in quella mattinata di calura era scarso, ben al di sotto della media stagionale che di per se è già bassa.
Dovevo uscire da quel bugigattolo. La bici in garage, tirata a lucido la sera precedente, mi aspettava e anche i campi di grano non ancora falciati,sembravano reclamare la mia presenza.
“Mò ci vado”, mi dicevo. Ma intanto mi soffermavo, pur sudando come un facchino, su alcuni blog di MySpace non letti la sera precedente.
“Adelante companero vamos a matar”. Era il mio notificatore, impostato con la mia voce, che mi segnalava l’arrivo di un messaggio. Clicco.”Adua desidera esserti amico” il breve testo di Myspace.
“E mò basta” dissi a voce alta ma così alta da disturbare persino mia moglie che si ventilava in veranda.
“Che c’è amore ti si è attanagliata una mosca sul video?” disse la mia simpaticona.
Era ormai da un po’ di tempo che giovani fanciulle volevano fare la mia conoscenza per ampliare la loro rete di clientela e questa Adua doveva essere una di quelle. Avevo persino pensato di segnalare la cosa a Tom (Jones) Andersen (nomen omen) l’inventore di questo marchingegno infernale ma non mi andava di passare per un delatore trattandosi, poi, di un banale, anche se complesso, gioco di società. Ma poi il suo nome mi incuriosì. C’è stato un film che aveva aperto la via del mio sapere che portava questo nome come titolo: “Adua e le compagne”. Così diedi il mio OK. Uno in più, uno in meno aveva poca importanza. Molte iscrizioni su Myspace sono un mordi e fuggi. C’è chi si fa prendere dell’entusiasmo per il tuo nik o per una tua frase ad effetto e si iscrive per poi dimenticarti subito dopo. Ma questa volta andò diversamente. Un paio di minuti dopo ricevetti il suo ringraziamento e l’invito di visitare il suo Blog. Così feci, scordandomi del caldo e dei goccioloni di sudore che mi allagavano il viso.
Appena aperto il Blog mi trovai davanti ad un mondo di farfalle dai colori più disparati e luminescenti. Si dice che il battito d’ali di una farfalla in Amazzonia può provocare un uragano in Florida,oppure lo scioglimento di un ghiacciaio al Polo nord. Si dice…
“E’ un’entomologa o una sognatrice?” mi limitai a pensare, senza mettermi nulla di catastrofico in testa.
Passai ad altro. In primis il suo avatar (un neologismo di una bruttezza infinita) com’è d’obbligo per iniziare un rapporto. Una foto riposante con sfondo una casa e lei seduta sui gradini dell’ingresso. Gambe accavallate armoniosamente che sostenevano un corpo ben affilato, un viso piuttosto angelico separato da un sorriso sottile e una voluta di capelli neri dal taglio preciso.
Età? Quaranta, massimo quarantacinque anni.
Vado a leggere le note e qui cominciano le sorprese. Nata in Italia in un paesino maremmano ma residente in Pennsylvania State, più precisamente Pittsburgh, capoluogo della contea di Allegheny e più precisamente ancora a Bellevue che è un centro residenziale immerso nel verde dove prima c’erano imponenti industrie siderurgiche. Insomma, una specie di Milano due, tanto per capirci. Io a Pittsburgh non c’ero mai stato ma conoscevo bene la tipologia di quella città bagnata da ben tre fiumi e i suoi dintorni per via di una ricerca che feci fare ai miei allievi. Pertanto continuai a scorrere con avidità le sue note biografiche. Tre lingue conosciute, inglese, spagnolo e naturalmente italiano, tre figli e tre nipotini, tutti in bella mostra in una immagine sottostante. E qui i miei conti non tornavano. Figli adulti e nipotini che avevano lasciato da tempo la neonatalità, com’era possibile? Riguardo la fotografia. Non era d’antan. Il vestito da lei indossato era di taglio in voga ai giorni nostri e l’immagine apparteneva ad una fotocamera digitale. Scorro ancora i dati e m’imbatto nell’età che qui, senza vezzo, veniva chiaramente riportata. Accidenti, questa donna si conservava decisamente bene nonostante che la sua data di nascita coincidesse perfettamente con la mia, cioè, da ben ventidue anni stabilmente negli anta. Ma era lei nella foto?
Così e anche per risolvere questo dubbio cominciai a navigare e a scrivere nel suo blog. Dapprima ci fu un gentile scambio d’opinioni, per lo più domande sull’Italia che lei non vedeva da più di dieci anni, quando ritornò per via di una gradita eredità e le mie che riguardavano la sua città di residenza e l’andamento politico americano. Di politica ne masticava poco. I suoi interessi erano tutti incentrati sui figli, sul giardinaggio, sulla cucina e sulla situazione economica spicciola. Scriveva in un italiano stentato, alquanto comico, ma lei rimediava a queste lacune con vezzosi inserimenti di inglese e spagnolo. Una faticaccia a leggere che si triplicò quando tra noi la consuetudine diventò quotidianità. Cominciò a scrivere al caffè del mattino quando in Italia era già mezzogiorno, poi alla sua ora pranzo, a quella della cena e anche prima di andare a letto. Raccontava storie autobiografiche di vita vissuta, di amori sbagliati, di figli con padri diversi che avevano lasciato a lei il compito di crescerli e educarli. Piano, piano, veniva fuori un ritratto di una donna forte, determinata, combattiva. Una donna a tutto tondo che non si era mai tirata indietro, che non aveva mai perso la speranza nonostante un mondo nuovo difficile da conquistare, una città fredda e ostile altrettanto difficile da vivere e amare. Ma lei ce l’ha fatta. I figli sistemati, nipotini che la amano, una bella villetta con giardino dove cura i suoi fiori che danno luce ai suoi occhi verdi. Ma tutto questo non le da ancora la gioia dell’assoluto e del definitivo. Lei vuole di più. Lei è ancora una donna in amore. Una donna che non si fa scivolare addosso l’età, che non rinuncia alle emozioni e che esulta quando il suo cuore batte all’impazzata per un nuovo incontro che le da speranza d’amare.
“Ma non ti sono ancora bastati tre uomini che ti hanno fatto soffrire?” le scrissi un giorno.
E lei, pronta e decisa, mi risponde:”Non si può fare a meno d'amare!”
Adua è come una poesia che educa il cuore, che fa la vita, che riempie i laghi aridi, alle volte anche la fame, la sete, il sonno. Magari anche la ferita di un grande amore, un amore che è finito, oppure un amore che potrebbe nascere.
E l’amore, tanto inseguito, entrò di nuovo nella sua vita.
A fine luglio, poco prima di partire per le ferie mi arriva un suo messaggio: “L’ho trovato Frank, ho trovato l’uomo per fare l’ultimo tratto della mia strada. Lo so che è lui. Me lo dicono i suoi occhi, le sue mani che toccano il mio corpo e le sue parole delicate come le tue. Adesso non voglio dire niente di lui per sgaramanzia (scritto proprio così) ma sappi che lo amo!”
Di questo non avevo dubbi perché lei sapeva amare e glielo scrissi.
Non mi rispose subito. Ora non aveva più tempo per me. Il suo cuore era in Paradiso e lei saltellava sulle nubi come un angelo bruno.
Non potevo fare a meno di pensare a lei. Me l’immaginavo felice e carica come una molla d’amore.
A fine Agosto, al mio ritorno, aprii il suo blog. Le farfalle erano sparite sostituite da un grigio anonimo che metteva tristezza. Lei era ancora seduta sui gradini della sua casa, i suoi figli e nipoti erano ancora là, sorridenti e felici di quella mamma e donna coraggiosa, ma in quel blog era sparita la luce.
Le inviai un messaggio privato, quasi un grido di dolore:”Dove sei?”
Da allora niente. Nessun messaggio, nessuna parola. Qualche volta sbircio nel suo spazio. Niente si muove. L’ultima data conosciuta è il 30 luglio, 2008 e le ultime parole sono le mie: “La Vita è un sogno che ha bisogno di essere vissuto. Auguri di cuore Adua”.
Adesso immagino di sentire il battito d’ali delle sue farfalle e mi convinco di aver sentito solo la sua mancanza. Ma è di più. Molto di più.

Frator 2009.

lunedì 9 marzo 2009

Un portale per diventare universale.


Se non
Sperimenti adesso
Ogni rifugio che cerca di
Spacciarsi per Atlantide, come
Potrai riconoscere quello vero?
W.H.Auden.



Il futuro non è che passato che aspetta di accadere e la speranza è un sogno fatto da svegli. Non volete conoscere il mio passato e non volete conoscere il mio nome per la semplice ragione che non ce l’ho, e dovrei inventarmene uno per farvi piacere. E l’ho inventato. Un acronimo che raccoglie di fatto il dato anagrafico. Un nome e un cognome sotto copertura come un agente segreto in missione speciale. Quello che dicono i miei occhi è sempre stato vero e anche quello che dice il mio cuore lo è stato, ma quando si calpesta una nuova terra si ha il timore di essere scoperti, come se il passato fosse d’ingombro al nuovo presente.
Un giorno mi sono alzato prima che la città si svegliasse, ho acceso il monitor, ho scavalcato elegantemente le notizie di stampa, news le chiamano, ho tolto un chiavistello e sono entrato in un portale per diventare universale. In quel preciso momento ho deciso che il mio nome sarebbe stato, per sempre, Frator.
Pensavo di stare poco in quel luogo, di soggiornare quanto bastava per intrecciare qualche relazione umana, per osservare il caos calmo della navigazione e invece, fino ad oggi, sono rimasto incastrato nei meccanismi perfetti di questa macchina infernale chiamata My Space. Anzi, dirò di più, mi sono innamorato di un portale. Più lo guardavo, più ci passavo il tempo ed era come se concludessi un lento periodo di saturazione, simile al gocciolio di un liquido incolore al quale, improvvisamente, si aggiunge una sfumatura rossastra o blu che non si era nemmeno insinuata prima dell’istante in cui era comparsa. Quando la freccia irradiante di Cupido, in questo caso di Tom, il novello Caronte che mi aveva trascinato in quest’Ade, colpisce in maniera così fulminante, poco importa se sei giovane o vecchio, sposato o scapolo, con figli o senza, con esperienza o meno, colto o zuccone. Quel giorno incontri il destino e ti accorgi che dentro di te si apre una voragine. Sei nudo e indifeso come se si trattasse del primo amore adolescenziale. Pensi a quello che eri e che sei adesso, ai tuoi progetti che riposano su uno scaffale. Sai che tutto potrebbe volare per aria, ma rimane il fatto che in quel portale ti sei scoperto disponibile. Non è successo apparentemente nulla, se non dentro di te, e probabilmente non succederà nulla, forse per questioni di riservatezza che ci si porta dentro dalla nascita. Ma lo sgomento rimane. Ti scopri emozionato come mai sei stato e ancora capace di un desiderio profondo. Pensavi che tutto andasse a gonfie vele, qualche normale difficoltà, qualche problema esistenziale da superare, ma niente di serio. Allora cos’è accaduto? Diventa un pensiero assillante. Niente è più come prima. L’ottica dalla quale si guarda la propria esistenza cambia. Quello che sembrava assoluto diventa relativo. Viceversa il relativo, o almeno ciò che dovrebbe essere relativo, giganteggia. Le pulsioni interne si fanno sentire con violenza. Non vale più la ragione, o meglio capisci che devi fare uno sforzo, concentrarti su una risposta e devi ricondurre queste emozioni alla ragione. Ne sei capace? Forse si. E se invece no? E se dopo avere riflettuto e ragionato, una domanda, un appello, ti penetrasse con tutta la violenza di un raggio protonico? Gli amici, se sapessero del mio stato ansioso, direbbero che in casi come questo occorre lasciare del tempo. Tutto si normalizza con il tempo, anche la morte. Ma come si fa a vivere il presente nascondendo questa passione, a far finta di niente?
Un giorno pensavo di esserci riuscito. Era bastata una bronchitella di poco conto, presa proprio davanti al monitor con la solita sigaretta serrata tra le labbra, e per la testa già giravano nuovi propositi di rilancio personale: un mondo da vedere, gente reale da incontrare, strette di mano da scambiare. E, invece, appena ristabilito, è stato sufficiente rivedere il portale per riconoscere la dose giusta e letale di disgrazia, la certezza di non essere così tanto forte e di aver perduto qualche cosa, una felicità o una pienezza, della quale non sapevo nulla, una notizia fugace ma reale. Da quel ritorno diventò un’abitudine frequentare la galleria del portale, quasi un vizio, pur usando ogni tipo di cautela per dissimulare la mia frenesia.
Dietro al portale si nascondono i naviganti. Gente intrepida, fiduciosa che cavalca l’onda virtuale nella speranza di raggiungere spiagge da sogno che facciano dimenticare, almeno per un passaggio di nuvola, l’insipienza del quotidiano. Gente che si presenta, che si racconta, che trasmette immagini, suoni, colori. Gente che si dispera ma spera, gente che chiede conforto e vuole un rapporto vero e per quanto possibile sincero. Così nascono amicizie, dietro alle quinte. Si intrecciano pensieri, si accontentano i desideri e piano, piano, nasce una comunità nella quale è piacevole vivere almeno, fino a quando, il soffuso non si trasforma in boato.
Una voce che si erge piena, prepotente ed esclusiva. Una voce che scavalca altre voci e che è gelosa di queste fino al punto di millantarne le presenze,financo distruggerle moralmente.
Che fare? Si risponde finché si può, cercando le ragioni, le cause di quel degrado psicologico e quando non si riesce più a controllare la soglia di sicurezza ci si dà alla fuga o meglio si cancella quello che non è più gradito. Via l’intruso che vuole spadroneggiare nella tua vita. Brutta cosa l’epurazione! Una cosa che non appartiene alla mia educazione, alla mia cultura democratica. Eppure l’ho cavalcata vedendola come ultima frontiera di salvezza anche se non mi compiaccio affatto del mio comportamento. Ho lasciato che succedesse perché non avvertivo quello che stava succedendo e mi sono accorto solo quando sono stato chiamato direttamente in causa. Si, sono io che non sono stato capace a spezzare la corda quando ero ancora in tempo per farlo e sono sempre io che mi sono sostituito ad un esperto del ramo mentale cercando di risolvere quello che non è di mia competenza. Sono docente, o meglio lo ero, perché adesso navigo nel mare della quiescenza, e devo coltivare questa professione fino alla fine. Diceva Artaud che “la psichiatria è stata inventata per difendere la coscienza presente, per togliere a certe facoltà sovra-normali ogni diritto a entrare nella realtà”.
L’avrò capito? Non so ancora. Certo che adesso prediligo le moine anche se sono relative a loro stesse, mi soffermo a lungo sulla poesia, magari le recensisco ma ignoro volutamente i sedimenti di natura psicologica. Mi adagio sui suoni, inalo emozioni dalle parole e interagisco con esse solo quando non avverto pericoli.
Non me ne vado dal portale e non me ne andrò mai. Qui ci sono gli affetti, i pensieri più dolci, le parole più delicate. Qui ci sono gli amici che dal virtuale sono diventati reale senza deludere le aspettative, anzi rafforzandole.
Non faccio nomi per non dimenticare qualcuno ma dico soltanto che tutto lo stivale è ben rappresentato e anche l’oltre frontiera si difende al meglio.
A questi va il mio grazie. In questi due anni di Spazio sono successe tante cose. Difficile mettere ordine. Mi servirebbe un’altra vita, forse due. Troppo stanco per scoprire altre regioni del virtuale e non saprei dove e come. Quello che è fatto è fatto. Adesso non si può disfare solo capire. Altri forse capiranno. Diranno che ero un uomo con troppe notti sulle spalle. Vedranno un tempo in cui una scrittura che prediligeva gli affetti era la via migliore da seguire. Una via di libertà e di autodeterminazione, senza vincoli se non l’amore e il rispetto degli altri.


Frator, marzo 2009

mercoledì 4 marzo 2009

A lungo, un sogno.





Il luogo:
Foresta Lacandona in Chiapas




L’azione:


Erano fermi in branco, sotto una tettoia di lamiera. Pioveva, l’acqua scendeva in grossi rivoli neri.
“Moriamo”, dissero i cani nel loro linguaggio. Alzarono i musi, mossero appena le zampe. I primi, i più vicini, le tenevano sollevate dondolandole con indifferenza. “Guardaci”, dissero di nuovo e con il solo oscillare delle teste mossero la pioggia come una tenda. Un lampo illuminò prima il cielo, poi la tettoia e la paglia. Nascosti dal fieno, qualche spiga posata sulle palpebre, distesi e immobili c’erano altri cani.
“Avvicinati”, disse il più giovane, apparentemente il più sano con le robuste zampette incrociate per terra.
Io andavo verso quella lingua sconosciuta che improvvisamente capivo. Attraversavo stagni con sciami di oche selvatiche, camminavo fra l’erba. Era la stagione delle piogge, vedevo uomini tagliare gli alberi della foresta, superavo gli steccati di filo spinato, mi inseguiva lo scatto delle forbici intorno ai cespugli.
Arrivai davanti ad una tettoia di lamiera, riconobbi il cane che aveva parlato per ultimo, con stanchezza, perché da allora erano passati anni.
“Entra”, disse il cane. Non era sano come sembrava, aveva un lungo taglio sulla testa, dritto e rosa in mezzo al pelo rossiccio, aveva le zampe intatte ma la coda spezzata, piegata come un guanto dietro il corpo.
“Seppelliscici”, chiese, poi si distese su un fianco.
Amavo i cani. In quella terra che avevo appena cominciato a calpestare li tenevo vicini sotto la cattedra di quella specie di scuola in lamiera, il seme della foresta, dicevano gli indios, o di guardia dietro alla porta.
E una sera dove le mie certezze stavano diventando briciole, li avevo ascoltati abbaiare a lungo fuori dalla finestra, innocenti e veri. Adesso anche loro erano usciti dal mondo, forse infilando una porta per sbaglio, forse pensando di seguirmi in una passeggiata ma lì, davanti a quella tettoia, in quel tempo diverso e slittante con qualcos’altro al posto del cuore non potevo più amarli, non potevo toccarli. Fu questo. Fu sufficiente pensarlo guardando i corpi gonfi dei cani morti, distogliendo gli occhi da quelli feriti. Bastò l’incertezza.
Non sarei entrato nel regno dei cieli, nemmeno in quello Maya. Avrei ruotato a lungo, ciecamente, fra le cose del mondo. Finché la miseria che mi spingeva come un vento non si fosse placata.

Fuori tuonava, le pastiglie sul comodino da prendere, rumori in cucina, un caffè fumava: ero ritornato nel tempo reale.


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