giovedì 4 settembre 2008

Quando i politici scrivono poesie


Un amico fedele ma burlone mi ha regalato, nell’ultimo Natale, un libro di poesie scritte da un uno che di professione fa il politico e che, per fama, si è pubblicizzato da solo. Il politico in questione è Sandro Bondi, che qui chiamo Ambrogio, per analogia con il famoso maggiordomo della pubblicità.
E’ bastato scorrere qualche pagina per capire che questo libretto è, già dal titolo, “Perdonare Dio”, se non un insulto, un qualche cosa che corrompe l’idea della poesia. Non è perché le poesie in esso contenute siano quasi completamente inesistenti come tali: chi è appassionato di poesia ha il modo di leggere raccolte di versi che generano automaticamente conati di vomito, ma bollare tali innocui libretti come insani virus della poesia sarebbe pomposamente ingiusto. E non è nemmeno perché il loro autore è un uomo politico di professione che occupa poltrone e incarichi che vanno al di la di ogni più fervida immaginazione; in poesia non esistono in non addetti ai lavori e un maggiordomo-onorevole ha altrettanto diritto morale, estetico, intellettuale di scrivere poesia che un carcerato, un docente, e così via.
Allora, che cosa è che non funziona? Quello che non funziona, intellettualmente, esteticamente, eticamente, è che lo scrittore non porti dentro i suoi versi l’esperienza della regione del reale di cui egli è parte; evitando di fare ciò egli realizza non un vissuto, visto come raffinata strategia retorica, ma una forma di reticenza come elusione del proprio dovere di testimone. Un parlamentare che scrive versi come se il Parlamento fosse il Paradiso di tutti i santi, occulta la vita; e un tale occultamento è nemico della poesia. Politica e poesia sono due forme del poiein, - del fare -, nel suo aspetto più demonicamente creativo; diverse sì, ma apparentate dal fatto che entrambe realizzano il poiein al livello della più febbrile intensità.
Che poesie (forse) interessanti avrebbe potuto scrivere Ambrogio se avesse veramente tentato di farci sentire l’eco delle parole nelle sale del potere, l’eco dei passi nei corridoi di Palazzo Grazioli o nella villa di Macherio! Ne vale obiettare che lo scrittore in questione non è un politico sic-simpliciter, ma un maggiordomo a tutto servizio. Se, dunque, avesse tentato di far parlare la sua effettiva esperienza (anche quella di fedele ciambellano) avrebbe scritto o poesie interessanti, o fallimenti fecondi (la differenza tra questi due casi è minore di quello che sembra). Peccato che Ambrogio non ci abbia nemmeno provato a fare qualche cosa di simile, tranne che in una, dedica ad una commessa della Camera: “Dolente fulgore/ mite regina/ misteriosa malia/ polvere di stelle” . Il risultato è questo libretto scheletrito che prende il titolo da una delle poesie che lo compongono: “Perdonare Dio”…per perdonare noi stessi (ma va là) ; una quarantina di poesiole edificanti (ritrattini, composti con mano scivolosa di donne e uomini di potere, glorificati e incensiti come d’uopo per un sacrestano, buoni sentimenti e buone intenzioni di fronte ai problemi della società contemporanea); sono testi non superiori al livello di ciò che appare in certi giornalini scolastici delle medie italiane.
Il dilettantismo in poesia si rivela soprattutto nel privilegiamento esclusivistico, o della tematica, o della forma. Ambrogio è sbilanciato nella prima direzione e viscido nella seconda; è per questo che allora colpisce come uno spiacevole rantolo di vento questa “quartina” dove sembra esserci una presenza ispiratrice rintracciabile nelle canzoni di Apicella, composte dal suo nume tutelare:
A Rosa Bossi in Berlusconi. Mani dello spirito /Anima trasfusa /Abbraccio d’amore /Madre di Dio.
Se è questa poesia (si stenta a crederlo, vero?), si può gettare senza timore nel fuoco con la certezza di non passare per aguzzini della letteratura o, peggio, per proseliti di Fahrenheit. Il perdono, poi, non si nega a nessuno, tranne che ai ministri della cultura.

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