venerdì 5 settembre 2008

La piscina delle rondini

“Per quest’anno non cambiare stessa spiaggia stesso mare” si cantava negli anni della mia adolescenza e io, come il più acceso dei fideisti, trascorro le mie vacanze, non sul bagnasciuga ma ai bordi di una piscina termale che si affaccia sulle affollate spiagge della costa tirrenica calabrese, tra il massiccio del Pollino e i primi verdeggianti contrafforti della Sila. E’ da più di un decennio che io e mia moglie veniamo qui a passare le acque. Siamo arrivati in questo luogo, un po’ fuori dai percorsi turistici tradizionali, per non dire dal mondo, inseguendo le tracce di nostro figlio che si era invaghito di una bellezza locale conosciuta all’università e anche dopo che la sua passione ebbe fine noi continuammo a venirci con regolare puntualità. Se la ragione iniziale della nostra presenza ha una sua logica, seppur perversa, il dopo, cioè la perseveranza, rappresenta un mistero che fino a oggi sembrava insolvibile. Sulle prime ero convinto che a farmi tornare fosse l’incanto fiabesco del luogo: il poggio che guarda il mare senza subirne l’effetto così com’è incastonato tra il verde delle foreste e un massiccio roccioso chiamato il dito del diavolo che si erge minaccioso sulla struttura termale; poi le amicizie che negli anni si sono ampliate e fortificate assumendo contorni di familiarità assolutamente impensabili per chi come me cercava di fare della riservatezza uno stile di vita. La cordialità tutta meridionale del personale delle Terme, le varie sfaccettature caratteriali degli ospiti mi hanno reso meno impermeabile alla vita di relazione. Così sono nate storie, passioni condivise, memorie da tenere in serbo per riscaldarsi durante l’inverno. Avvio il rotore e la pellicola in programmazione per questa stagione si svolge. Ecco spuntare l’aitante e corteggiatissimo cameriere che non si sposa per rimanere accanto alla madre da tempo ammalata, o un portiere di notte che ha scelto questo incarico delle ore piccole per sorvegliare un fratello che si è perso nei fumi dell’alcool e poi, per passare agli ospiti, il generale in pensione, che io chiamo degli Elfi per la sua altezza che eguaglia quella dell’ultimo Re dei Savoia, che ammonisce con toni da sbarco in Normandia tutti coloro che hanno l’ardire di fumare in sua presenza e che nonostante l’età e i tre by-pass coronarici continua a guardare con occhio rapace tutte le donne che gli capitano attorno comprese le fumatrici. “Tutto merito degli anticoagulanti che assumo ogni giorno se sono ancora un galletto”, mi confida, forse per giustificare la sua debordante voracità e, ancora, un allevatore umbro di cavalli che è diventato il terrore di tutti i giocatori di burraco per la sua invadenza nel gioco. “Nun se fa cusì” comincia a dire per poi, se inascoltato, avventarsi sulle carte in mano del malcapitato giocatore, aggiustandole a suo piacimento. Qualcuno tace pur regalandosi un sicuro mal di pancia, altri si alzano dal tavolo adducendo scuse e impegni incontrovertibili e lui, gongolante, senza chiedere il gradimento della sua presenza, si siede al loro posto continuando a smoccolare improperi e accuse a chicchessia. Così molti hanno incominciato a studiare i suoi orari e le sue uscite con la numerosa famiglia che si è portato dietro e giocano in posti insoliti e in orari da lupi mannari per non essere infastiditi quando l’umbro torna. Il Burraco è una cosa seria in vacanza, un tonico corroborante, un andito dei passi perduti e non giocarlo sarebbe come ridursi lo stipendio. Ma non sono queste storie di minimalia, seppur forti e avvolgenti e l’incontaminata natura che tutto avvolge a farmi ritornare qui, come pensavo. Altri sono i motivi. Mi è bastato, appena arrivato, guardare il cielo dalla vasca della piscina per ricordare le rondini e avere nostalgia di rivederle. Uno spettacolo unico e imperdibile. Arrivano verso le sei del pomeriggio quando la piscina si svuota di bagnanti e iniziano la loro danza a pelo dell’acqua stagnante e putrida di zolfo e alghe. Io sono lì che aspetto e in questo momento tutto il resto non conta più. Non contano gli sguardi curiosi e ilari degli ospiti, gli allarmi interessati degli addetti alla piscina che vorrebbero incominciare a sistemare le sdraie e gli ombrelloni, gli occhi atterriti di mia moglie che mi puntano come se andassi a combattere chissà quale battaglia. “N’do vai ninnì?”, mi dice un amico romano di lunga data. Lui sa bene dove vado, lo sa da sempre ma ci gode a stuzzicarmi. Scendo la scaletta della piscina e mi posiziono contro la parete nord, una riedizione termale della curva Filadelfia e aspetto. Non ci sono bandiere che sventolano, grida di incitamento, solo silenzio. Il cielo è azzurro, pulito, senza graffi. Poi, all’improvviso, un leggero refolo di vento sembra agitare il magma liquido. Eccole, arrivano, non si capisce da dove ma sono qui, sopra di me. Stormi d’uccelli neri con la livrea bianca. Squadriglie schierate perfettamente a rombo. Fanno un paio di voli di ricognizione e poi il capo in testa lancia l’attacco. Come kamikaze scatenati si catapultano sull’acqua, Le ali sono ferme, rigide, quando scendono, per poi diventare elastiche quando riprendono quota. Qualcuna si bagna il sottopancia, altre si cibano di microrganismi, altre ancora lanciano qualche bombetta escrementale e poi spariscono verso il bosco lasciando il posto ad altre pattuglie. Vanno avanti per quasi un’ora. Una danza, una perfezione stilistica senza pari, un evento che sa di elegia e che purifica l’anima. “Professò, la piscina si chiude” mi grida il bagnino. Lo spettacolo è finito ma domani si replica e anche quando sarò lontano da qui mi porterò le rondini nel cuore nell’attesa di poterle rivedere il prossimo anno ancora e ancora.


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