lunedì 8 settembre 2008

Il volo dell'aquila

E’ un altro meraviglioso, sconosciuto angolino d’Italia; è un altro francobollo di tricolore fuori dai soliti itinerari. Non è sulla bocca di tutti, non ci sono fenomeni di massa alla ricerca di sfrenato divertimento, non ci sono “VIP” che si calano sugli occhi lenti annerite per nascondere la noia e la presunzione di essere al di la di tutto e tutti. Chi viene qui lo fa per calarsi dentro la natura, tra sassi e dirupi da paura, per godersi le strade tortuose ma senza traffico, per assaporare gli odori di una volta, il grido silente di una natura incontaminata e una giornata, come quella di ieri, scandita dalla luce del sole, dai ritmi della civiltà contadina e di un paese a picco sul mondo. Qui, a venti minuti d’auto dal casello autostradale di Scafa che annuncia l’Abruzzo ai piedi della Maiella, in questo paesino di pietra che già dal nome richiama l’asprezza della salita, Roccamorice, così lontano dal suo comune capoluogo di Regione, cioè Pescara, chi volete che ci venga? D’altronde, non è certo irraggiungibile, visto che Roma, tanto per dire il centro del mondo e l’Adriatico del Nord e del Sud sono ben collegati e a disposizione di chiunque. Ma noi, i quattro elefantini epicurei, a Roccamorice come ci siamo arrivati? Venivamo da Caramanico Terme dove ci siamo concessi un fine settimana alla James Bond, cioè indagando, per futuri soggiorni, sulla qualità delle acque e sui servizi ricettivi anche alla luce dei recenti scontenti in altre località termali. Roccamorice spuntò per primo dalle labbra di una efficiente addetta alla reception del Grad Hotel del Terme appena noi le chiedemmo dove si poteva andare a mettere i piedi sotto a una buona tavola. Meglio di un Tom-Tom la signora Maria. Tracciò all’istante uno schizzo di mappa, segnalazioni di svolta appropriate e il nome del locale scritto in grassetto: “il Carro”. Ma noi…non l’abbiamo trovato e siamo arrivati dritti, dritti al centro del paese. “Dovete tornare indietro verso la statale”, ci dissero alcuni avventori di un bar che cercavano frescura nei boccali di birra. A queste parole scolorimmo. Tornare indietro? Ripiombare in quella cappa di caldo che ci eravamo lasciati alle spalle? E chi se la sentiva? “C’è qualche locale qui dove se possa magnà”, domandò il Dany, al colmo della disperazione, nel suo inconfondibile slang alto-atesino. “E cumme a no! C’è solo l’imbarazzo della scelta”. Ci risposero in un bel orchestrato coro. In effetti i locali erano due che facevano da laica corolla alla chiesa madre del paese. Anghingò tre civette sul comò, cantammo e la scelta cadde su quello che già si scorgeva all’orizzonte prossimo: l'Osteria del Belvedere e mai nomen-omen fu più azzeccato di questo. Entrammo quasi di rincorsa e subito fummo catapultati in una casa museo dove l’arte di ispirazione precolombiana esplodeva e prendeva forma dalla pietra della Majella. Se stupore e commozione ci chiusero il cuore, la gola, quasi a digiuno, richiedeva la sua parte. Oltre alle divinità sconosciute e ai contorti volti disumani scavati nei blocchi di pietra si scorgeva un’altra saletta oblunga che sembrava sporgersi in un orrido infinito. Ci lasciammo alle spalle lo stupore e ci avviammo verso la sponda dei sapori che già si impossessavano delle nostre narici. Ci accolse, con un sorriso d’intelligenza, un cameriere che già di primo acchito ci pareva dedito a tutt’altra professione. Un volto solare incorniciato da un sottile rigo di peli biondicci, un codino di capelli legati con cura e una predisposizione alla solerzia ragguardevole. Capimmo subito che avevamo di fronte l’artista che aveva dato origine a quell’ambaradan di pregevoli sculture. Furono sufficienti poche parole e lui ci catapultò nel suo mondo e… poi fu gloria, in tutti i sensi. Un menù senza pretese, casereccio, ma invitante, accattivante, piacevolissimamente desueto: provolone al miele d’api locali, che prendono nido nelle tante tipologie arboree di cui la zona è ripiena, recinto in una corona di noci; i chitarroni fatti veramente in casa al sugo, ma non un sugo sbiadito, commerciale, ma denso, commovente nella sua succulenta schiettezza d’altri tempi. Al secondo il maiale in tavola sotto forma di lombatine innaffiate con aceto balsamico, proveniente da uva locale e pinoli di bosco. Un po’ di ricerca sostenuta da una materia prima ragguardevole.
Del dolce ne abbiamo fatto a meno vista l’abbondanza dei piatti e del coinvolgimento totale ad un evento che la Tina, moglie dell’altoatesino, ci stava raccontando. Uscita fuori dal locale per distrarsi dall’abbuffata ha visto un oggetto scuro di notevoli dimensioni librare libero in alto. Era un’aquila reale in cerca di preda che tra anfratti e picchi danzava con il cielo azzurro. La macchina fotografica poggiata in bella mostra sul tavolo…ma noi avevamo il supporto multimediale della Tina che quando apre l’obbiettivo del racconto ne escono fotografie suggestive.
Un consiglio: non perdete questo piacere d’altri tempi e un locale singolare colmo d’emozioni di pietra. Il tutto e senza biglietto d’ingresso non vi costerà più di 25 Euro.















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