venerdì 5 settembre 2008

Come criticare, con poca indulgenza, me stesso.




Scrivere per me è un'arte marziale in cui l'avversario sono io stes­so. Sono io che scrivo e sono io che impedisco a me stesso di scrivere. Sono io che mi pongo un traguardo e, guarda un po’ sono io che mi ostacolo per non arrivarci quasi mai. Sono io che programmo la vittoria e sono sempre io che la saboto . Ma, come nelle arti marziali il princi­pio consiste nel far sì che il contendente si sconfigga da solo con la sua stessa forza, così, apprestandomi a scrivere devo aver presente attraverso quali esercizi l'impeto con il quale lo sfidante mi attacca può essere utiliz­zato a mio vantaggio e ritorto con­tro di lui. Come diceva Pogo (il fumetto americano di Walt Kelly) : "Ho visto il nemicoe lui è noi": ma è quella parte di noi, di me, che è ammalata di presunzione, di megalomania, o di pura e semplice paura: paura del­l' ignoto, del fallimento, o anche di un successo che mi metterebbe di fronte a conseguenze che temo di non saper affrontare.
Mentre sono intento a una prima stesura del mio lavoro lotto contro demoni di cui sono respon­sabile solo in parte. Poeti defunti, antichi maestri, pa­renti vivi, amori perduti o incomben­ti, malattie, bollette da pagare e rogne di ogni tipo si mettono sul mio cam­mino. Finché è questo il caso va an­cora tutto bene: è da loro che devo guardarmi, non da me stesso. Ma non appena sono arrivato alla parola fine (sempre che ci arrivo), sia che abbia scritto un sonetto di quattordici versi o un poema di cinquecento pagine, l’ombra che debbo affrontare si fa più minacciosa. Inizia il duello interiore della rilettura, l'ordalia del rifacimen­to, l'insormontabile supplizio della riscrittura. L'altro me stesso resiste con tutte le sue forze: dapprima cerca di convincermi, come un sussiegoso Bruno Vespa qualsiasi, che la zoppicante creatu­ra a cui ho dato forma è una splendida fanciulla in minigonna che troverà schie­re di tenaci ammiratori: poi gioca la carta della rabbia e del risentimento: quello che ho scritto avrà pure i suoi difetti, ma è davvero tanto peg­gio di ciò che ogni giorno si scrive e si pubblica in questo disgraziato Pae­se, dove la stella dell'ispirazione è tramontata e la notte della mediocrità regna senza timore di essere sconfitta dall'aurora?
Infine, la terza larva che il demone indossa per ingannarmi è quella della stanchezza della com­miserazione: sì, la mia operina è lungi dall'essere grande: non è nem­meno meritoria di particolari men­zioni; ma nessuno è perfetto, e per­ché mai dovrei giudicare me stesso con una severità che non è pra­ticata da nessuno? Allora, così com'è, la licenzio con qualche indispensabile aggiustamento, tanto più che ne sia­mo stufi, vorremmo passare a un al­tro progetto più allettante e che ci permetterà di dare miglior prova del nostro talento, e poi il giornale o l'e­ditore o il mio destinatario mi aspet­ta al varco, la scadenza è vicina e gli ho dato la mia parola. Tutte giustificazioni comprensibili, di cui però a chi mi leggerà non im­porta un bel nulla. Il lettore, maledizione a lui, legge solo quello che c'è scritto. Perfino Goethe si lamentava che nessuno sembrava essersi accorto dell'enorme lavoro di lima che gli era costata la sua Ifigenia. "È così. a nessuno importa la pena che ti dai", commentò amareggiato. Se il pubbli­co è stato così noncurante nei con­fronti di Goethe, lo sarà a mag­gior ragione anche con me che sono meno di una pulce al confronto del tedescone. E io stesso, una volta che passo dal ruolo di autore a quello di lettore, non giudico diversamente da così. La conclusione, amara e necessaria, è solo una: finché l'opera è ancora nel­le mie mani non sono ammesse fu­ghe, scappatoie o diversioni: devo affrontare e sconfiggere il cava­liere oscuro, colui che mi impedisce di criticare me stesso con la stessa se­verità che di solito uso o tento di usare per qualsiasi altro.
Devo ammettere, però, che trovo conforto da degli appunti che tante lune fa presi durante una lezione-evento di Franco Fortini. Parlava di stilemi di scrittura e di composizione e scomposizione di una prosa o di una poesia e, ad un certo punto, elencò tre metodi critici, presi in prestito da Dalton Trumbo (sceneggiatore di Hollywood esiliato in Messico negli anni 50 a causa del maccartismo che lo aveva messo nella lista nera, dove proprio lì scrisse la sceneggiatura di un grande film antimilitarista, “e Johnny prese il fucile”) di grande efficacia per chi vuole scrivere e come si dovrebbe metterli in pratica:
Scoprire il peggior difetto di quanto si è scritto e quindi tornare indietro pagina per pagina, riga per riga, prendere degli appunti e mettere in risalto tutti i difetti dove il passaggio è più evidente. Gli effetti di questo sistema possono, però, essere devastanti e costringere l’autore a riscrivere tutto daccapo;
Oltre a concentrarsi sul peggior difetto del lavoro, bisognerebbe ritornare sui personaggi. Il vantaggio di questo metodo consiste nel vedere se si è coinvolti a livello personale e che invece di odiare si prova pietà dai personaggi coinvolti nella vicenda;
In questo punto tutto è permesso. Niente è sleale. Lo scopo non è cambiare il libro o i personaggi, ma l’uomo, l’autore, denudarlo dalle sue certezze e costringerlo a riconoscere le sue debolezze per quello che sono; la testardaggine è una brutta cosa, dovunque e comunque si presenti e può portare in molti casi all’insuccesso, di contro l’umiltà porta alla comprensione più profonda delle leggi della Vita.
L’avversario, però, è sempre in agguato anche nei minimi dettagli: la punteggiatura, un apostrofo fuori luogo, un pensiero che s’insinua radente a tutt’altro pensiero, e prima di raggiungere gli stadi superiori dell’idea in cui il combattimento si trasforma in una danza di beltà squisita, mimesi dell’armonia della creazione, sul campo di battaglia della pagina non ci sono trappole così piccole che se ne possa trascurare l’insidia.
Scordatevene di tutto quanto sopra riportato, vale solo per me, l’importante, amici cari, è fare due cose: leggere e scrivere e tutto il resto viene da se.
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