mercoledì 25 marzo 2009

O Capitano mio Capitano.

“Il piacere unisce i corpi, la pena le anime”

Start. Ed è con questo pensiero di Guido Ceronetti conficcato nella testa che sono partito alla volta di Sanguinetto. Non ho lasciato animi affranti, né ho visto fazzoletti sventolanti, d’altronde non potevo vederli perché gli occhi erano coperti da una voglia matta di magia e di colori sgargianti.
Ero combattuto tra Palinuro e la sirenetta di Andersen, che impudente esagerazione, uscire dal mare delle consuetudini, non sentire le capziose sirene e arrancare in quest’impresa tanto anelata! Ma il Capitano mi è compagno, amico, poeta, medico dell’anima animalesca molto speciale. Lo è stato per me lungo questi mesi di frequentazione della “piazza”, e poco importa dove lo sentivo presente, vicino: se nel tempo immaginario o in quello reale, se nei luoghi della mente o in quelli fatti di terra, di acqua e di tastiera. Compagno e amico come nell’età antica, cioè nell’età adolescente. L’adolescenza è quello che insegni e che vivi e che scrivi: è il primo segno che mi è venuto da lui. Solo l’adolescenza accompagna e ama, d’un sol fiato e quasi in affanno. Solo un adolescente fugge se i due sentimenti si divaricano, o se uno dei due si dissecca lasciando in vita solo l’altro. Solo un adolescente è specchio perfetto dell’amicizia di Chamfort: quell’ “amitié extrême et délicate, souvent blessée du repli d’une rose”. L’adolescente brucia e si consuma, con o senza fiamma, ed è perché brucia e si consuma che ha sete di alto.
Un sospiro d’immenso sollievo plana su di me quando vedo in lontananza lo svettante campanile di Sanguinetto. Addio lunghe strisce d’asfalto. Addio Verona, uscita sud, che mi ha fatto saltare l’indice magnetico della bussola umana che avevo scrupolosamente incorporato. Addio serre che assottigliano l’aria. Addio paesini del mobile artigianale dove il benessere sputa l’evidenza, è giunta l’ora mia di tirare fuori gli artigli di mansueta tigre e di fare Pasqua.
Tromba. Sveglia d’ordinanza per Palinuro.
Ma chi era Palinuro?

Il pre-concerto. Qui, davanti al Chiostro dei Cappuccini c’è solo Frator, un adolescente che ha fatto il sessantotto, il sessantanove e il settanta e poi si è dato alla macchia. Un fanciullo che ha creduto nella luce e si è assoggettato al buio. Un ragazzo che non ha mai rinnegato i valori e che vive con rabbia in una società dove i valori sono considerati alla stregua di escrementi. Gli dei, però, sono clementi e ogni tanto accontentano gli umani. Radunano apposta, ingegnosi, una ghirlanda di persone, di volti che hanno il profilo d’eternità. Ecco Carol, la Regina delle stordite, che mi riempie di un abbraccio che ha la forza di un Ciclope. Stordita? Si! Ma d’amore! Ecco Crici, che ha messo nel cassetto dei ricordi sgradevoli un femore fratturato e che adesso si gode con cotanto marito la gioia del presente. Ecco Barbara che è uscita da Domitilla e si presenta così com’è, con tutto il suo contaminante entusiasmo. Il coperchio si è alzato e dalla pentola escono profumi conturbanti. L’essenza Daniela-Budyna: due occhi che catturano, sovrastando la sua minuta figura. Ci vogliamo bene, le voglio bene, la sento presente, sempre, anche se non ci siamo mai addati. L’addatura, orrido termine che nasce da un traduttore incazzato, è un formalismo, una convenzione, mentre tra noi c’è concretezza e comunione di pensiero. E, poi…ecco la rumba, la salsa, il ritmo latino-americano che ti strega, t’incatena, fino a toglierti il fiato. Eu, ti fa pensare ad una gazzella, ma lei è donna-pantera dalla cima dei capelli alla punta dei piedi. Donna in amore, donna di passione, un colpo di vento che spazza via le nubi, un sorriso che è luce e schiettezza.
“Quando ti vedrà Enrico….”, mi sussurra tra un abbraccio e l’altro.
Eccome se mi vede, Enrico, il mio Capitano. La sua figura sghemba si staglia sull’impiantito del convento. Viene verso di me, poi si ferma, allucinato, dalla mia grossa possanza. “Professore. No, non ci credo”. Il nostro abbraccio equivale a una scossa tellurica che si propaga nelle viscere, che blocca ogni via di fuga. “Dai su vieni a casa mia” mi dice quando ci riprendiamo dallo sconquasso.
Una delicata guida, il "Tributo", manager di Enrico, mi porta nella casa avita.

La casa. Una volta entrato vengo inglobato in un cunicolo di libri che si ergono come pietre miliari in una libreria che sembra costruita non da un semplice ebanista ma da un liutaio, tanto è armonica. La mia mano scatta verso l’alto e cattura un libro. L’apro e annuso le sue pagine che hanno l’odore del tempo e delle dita che le hanno girate. Pochi passi dopo c’è il giardino, una posada verde dove scorazzano felici due cagnolini che hanno preso il posto del mitico Tatù, il protagonista di una delle canzoni più belle dell'Enrico. Due caratteri diversi, due facce diverse, due virgole che separano un pensiero. L’uno, il barboncino dal pelo bianco e ricciuto, è un giocoliere nato, un trapezista sprezzante di ogni pericolo, che salta, si dimena, sprigionando gioia da ogni poro; l’altro, un bassotto dal pelo lucido e rasato, dal profilo aguzzo come il suo padrone, meditativo, è un attento osservatore delle cose e della gente. Lo spazio è mio e guai a chi me lo ruba sembra dire quando i suoi lunghi occhi ti scrutano. E’ da lì, da quel giardino incastonato fra i muri delle case che noto lo studio del Capitano. E’ come me l’aspettavo, come l’avevo immaginato riflettendo sul luogo ideale di produzione delle idee di un Capitano di lungo corso. Un caos razionale. Un mare di foto che avvolgono, che spiegano il suo mondo, che evidenziano gli affetti più cari, che incastonano quella finestra aperta sul mondo che è il computer. Una finestra sempre spalancata, un cono di luce ardente che aspetta solo un clic per propagare il suo raggio di sapienza. Non ero solo in quel luogo di sconfinamento dalla realtà. Su un divano sbiellato era seduta una nuvola bionda. Impossibile ignorare tale gravità. La nuvola si svela e il suo nome ridonda, richiama immagini viste e riviste, affetti dichiarati, presenze costanti: Raffaella. Eccola! Materiale umano prezioso, diafana d’aspetto e dirompente di verbo. Un gaudio per gli occhi, una gioia per il cuore, un tripudio per orecchie stanche. Banale? Mai! Superficiale? e chi conosce l’aggettivo! Lei è Lei e guai a chi me la tocca.
Intanto, in quel gioco di parole che ci scambiamo, irrompe il Capitano. Aspetta paziente che finisca l’effluvio e poi, guardandomi con occhi scrupolosi, mi fa: “Vieni con me, prof”. Era quello che aspettavo e non vedevo l’ora che accadesse.

Interno casa. Una casa vissuta da tanti e tra i tanti, Eugenio Montale, che ha lasciato dei graffiti, uno per ogni componente della casa. Profetico l’omaggio al Capitano: una barchetta che naviga e che non arriva mai.

Zona cucina. Un uomo ricurvo siede al tavolo. Davanti a lui una tazza e delle fette biscottate spalmate di marmellata, schierate con cura e precisione la stessa che aveva nella preparazione dei suoi articoli sul Corriere della sera. E’Giulio Nascimbeni il padre di Enrico e mio inconsapevole salvatore dai marosi dell’insipienza. Debbo a lui i tanti salva gente lanciatemi quando ero in crisi d’idee nel preparare le lezioni, come debbo a lui la considerazione sproporzionata che i miei studenti avevano del mio linguaggio forbito. Non sapevo come chiamarlo e mi veniva solo Maestro e così ho fatto. E’ stata la cosa giusta!
Le parole di un padre sono sempre un misto di ansia e di tenerezza e quelle dette da Giulio al figlio non si discostano dalla consuetudine: “Mi raccomando, comportati bene questa sera!” Il sorriso montato sul suo volto esprimeva amore e orgoglio.

E venne subito sera. “Sto bene vestito così prof?” mi chiede il Capitano poco prima di andare al concerto. E ottenuto il mio assenso, non so con quanta persuasione del mio giudizio, è pronto per dare il meglio di se. Lasciamo la casa riposare dalle nostre grida e ci avviamo tutti verso il chiostro. Strada facendo si consolida la mia amicizia con Paolo Pilo e la diletta, dolcissima, moglie e naturalmente Raffaella che fa voltare molte teste maschili per la sua svolazzante mise e l’incedere voluttuoso.
Trovo Paolo una persona deliziosa che sa dare un senso non solo alla sua vita. Con lui abbiamo parlato di testi e ho scoperto la sua facilità di scrittura legata ad un notevole senso di percezione della realtà umana che lo circonda.

Il concerto. Il chiostro è vestito di incanti unici. Illuminato dalle candele reincarna il suo passato medioevale fatto di preghiere e meditazione e questa è proprio la sera dove il pensiero troverà il suo appiglio. La gente è quella giusta ed è tanta. Il nemo propheta in patria lascia il posto al quacumque de causa.
Le suggestioni iniziano con Gilberto Lamacchi che, in apertura di concerto, interpreta una delle più belle canzoni di Enrico: “Fiocco di neve” e lo fa con estrema dolcezza e quando le parole lasciano spazio alla musica, ecco che lui interviene con il suo flauto traverso che da all’armonia forme struggenti e uniche.
Adesso è l’ora X. Il Capitano si concede al suo pubblico e l’affetto è tanto. Lui lo sente e si prepara a dare il massimo. Fioriscono le sue canzoni del “Male d’amare” e due suoi inediti che andranno ad arricchire il prossimo album, sorrette da un’interpretazione minimalistica intensa e delicata. Ogni brano trova una sua prefazione, una motivazione, un input di iniziazione alla struttura poetica. Così tutto diventa avvolgente, pieno, interdisciplinare dove tutti vengono coinvolti. Questo significa recital, interpretazione globale, coinvolgimento partecipativo e il Capitano è un’interprete ideale di tutto ciò e la band che l’accompagna ha carpito perfettamente il suo pensiero. Ogni nota ha un senso, ogni parola si fa nota e questo, tutto questo, è musica.
La gioia di stare con la sua gente, con i suoi amici di my space, è condivisa da altri due artisti, suoi amici di lunga data: Paolo Pilo, che lui chiama Giorgio e qui deve correre sotto il palco la solerte Eu per correggerlo dando il la involontario ad una sua fulminante battuta - “Beh vuol dire che non è poi un amico di lunga data” - e Marco Massa. Tutti e due cantano le loro canzoni autorali e lo fanno con passione e riconoscenza, consegnandoci dei testi validissimi e voci oltremodo impostate.
Un finale travolgente: “Tatù” e l’emozione sale; “Stigmate”, dalle struggenti sfumature; “Siamo storie dentro le canzoni”, un canto corale, le braccia alzate che accompagnano il ritmo. E’ il clou ma è anche la fine di un concerto meraviglioso, un qualcosa di così intimo e abbagliante come non l’avevo mai provato. Se in quel momento fossi stato in grado di avere un pensiero avrei pensato che nulla è paragonabile ad un piacere del genere, quando lo si prova dopo averlo lungamente agognato. Io lietamente passivo, abbandonato, dopo essermi guadagnato il pane dell’amore. Il palco si svuota ma il parterre rimane immobile come stregato da una magia sospesa nel calore umido della notte.

Il post-concerto. La casa avita ritorna a vivere. Siamo tutti lì su quella lucida striscia verde a festeggiare il nostro Capitano. Clic di macchine fotografiche, autografi, magliette in dono, fiumi di liquidi e poi il risotto che entra in pompa magna in una grossa pentola portata come un trofeo da quel liutaio che ha costruito l’arca dei libri. Una persona speciale, come sono speciali tutti gli amici veri del Capitano. Marco Massa, ad esempio, un tratto corporale possente come la sua voce, ma una dolcezza di parola che ti mette in pace con il mondo; Alessandro dalla parlata veneta e dalla risata pronta che coinvolge e una ragazza alta come l’Everest che una volta raggiunta la sua cima varrebbe la pena conficcare la bandiera.
E’ l’ora dei saluti. Mi piacerebbe rimanere, scambiare ancora parole, vivere ancore le magie di una serata irripetibile ma la strada per il ritorno è lunga e fra poche ore dovrò varcare a Sud il Rubicone.
Gli addii sono dolorosi, il rimpianto è un colpo di vento che spalanca una porta chiusa ma rimane la convinzione di aver creato un gruppo solido, unito, in nome della musica, della poesia e di tutto quanto rende piacere nella vita. Un gruppo che non si fa guidare da un uomo ma che condivide con lui il sapore della parola in ogni sua sfumatura. E il Capitano è un uomo che non ha paura di addentare le arterie stesse del linguaggio; usa arpioni e morsetti, armi proprie ed improprie; colpisce ben al di sotto della cintura e come un grillo salta e canta, il dorso chino per sopravvivere all’indecenza di queste sciagurate stagioni del disamore.






Frator

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